Libero, 23 gennaio 2015
Anche l’indagine federale sui fatti di Ferguson voluta da Obama assolve l’agente Darren Wilson che uccise il nero Michael Brown: nessun razzismo, sparò per salvarsi la vita
Dunque, non solo l’agente bianco Darren Wilson aveva agito per legittima difesa quando, a Ferguson l’estate scorsa, uccise a colpi di pistola il diciottenne nero Michael Brown, secondo quanto deliberò in novembre il Grand Jury popolare del Missouri. Il suo comportamento, emerge ora, fu irreprensibile anche per il governo Obama, che aveva voluto condurre una separata inchiesta per scoprire se il poliziotto avesse commesso reati federali contro «i diritti civili». Cioè se, nell’incidente che portò alla morte di Brow, Wilson avesse agito con «intento razzista» e con il fine volontario di ledere i diritti umani della vittima.
Gli avvocati del Dipartimento di Giustizia, incaricati dal ministro Eric Holder di indagare sul caso indipendentemente dal procuratore di Ferguson e dai giudici statali, non hanno trovato prove di reati e hanno scritto un rapporto conclusivo in cui raccomandano al ministero di non incriminare il poliziotto. Holder, dimissionario, ha detto che deciderà prima di andarsene entro qualche mese, ma è prassi ovvia e consolidata che il ministro accetti la tesi dei propri avvocati.
Gli investigatori federali hanno fatto il possibile, sapendo che Holder-Obama ci tenevano molto a portare alla sbarra Wilson. Hanno condotto 200 interviste e analizzato dozzine di telefonini di testimoni, vivisezionando video e audio alla ricerca del minimo indizio che inchiodasse Wilson: frasi o atteggiamenti che potessero tradire malanimo o disprezzo razzista.
L’FBI ha riesaminato la pistola, i vestiti e ogni altro elemento nei laboratori di Quantico, in Virginia. Holder ha ordinato un’autopsia alla clinica delle Forze Armate della base dell’aviazione di Dover in Delaware, dopo quelle di parte dei dottori della famiglia Brown e della procura del Missouri. Non è emerso nulla di diverso, hanno detto gli inquirenti al «New York Times».
Il poveretto era solo paralizzato dalla paura di avere di fronte un energumeno molto più grosso di lui, che gli aveva dato dei pugni in faccia e aveva cercato di rubargli il revolver. Pensava solo alla vita propria, Darren. Se è possibile in teoria che, in una situazione simile, possano anche esserci frammenti di razzismo, i solerti avvocati di Holder non li hanno trovati.
Dopo i fatti di Ferguson, e il caso successivo di Staten Island in cui un altro nero (asmatico e obeso) aveva resistito all’arresto ed era morto per collasso cardiaco, era scattata una mobilitazione nazionale politicamente corretta, cioè anti-polizia. A dirigerla, con l’alto patrocinio del presidente degli Stati Uniti, era stato Al Sharpton, il reverendo nero di New York, estremista anti-bianco e intimo collaboratore del sindaco rosso de Blasio, il campione della propaganda contro la polizia di New York. Per settimane l’establishment liberal, ossia il partito democratico e i media in clima pre-elettorale, avevano cavalcato il razzismo per fini politici, puntando ai verdetti di colpevolezza dei Grand Jury, che non ci furono. Così è toccato agli attivisti, dalle Pantere nere ai militanti sindacali radicali, dai gruppi politici di estrema sinistra ai liberal nelle università, far rivivere ai cittadini normali una stagione Anni ’70 di disordini, incendi, saccheggi e blocchi stradali, da Ferguson alla California e a New York.
Che cosa è rimasto di questa campagna di odio al grido di «Le vite dei neri contano» e «Uccidi i poliziotti»? Il bianco Wilson, scagionato da tutto, ha perso il posto di lavoro dimettendosi lo scorso novembre dalla polizia. E due suoi colleghi della NYPD, uno asiatico (Liu Wenijan) e uno ispanico (Rafael Ramos), sono stati uccisi a sangue freddo, per vendetta razziale, dal «giustiziere» nero Ismaaiyl Brinsley.