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 2015  gennaio 22 Giovedì calendario

«Abbiamo vinto la Guerra fredda», la falsa pretesa di Bush senior che continua a influenzare l’America di Obama

La situazione attorno all’Ucraina è carica di gravi sviluppi, ha, come lei ha osservato, radici profonde. Un effetto particolarmente negativo è stato prodotto dalla pluriennale politica americana di trattare la Russia come se non avesse interessi da tutelare. Il via l’aveva dato nel gennaio 1992 Bush senior con una solenne dichiarazione davanti alle due camere del Congresso: la Guerra fredda non è venuta a termine, è stata vinta con l’aiuto di Dio dagli Stati Uniti d’America. Cosi cambiò la rotta rispetto all’intesa tra Gorbaciov e Reagan che avrebbe potuto fare del nostro mondo un posto un po’ più sicuro.
Anatoly Adamishin
Ambasciatore russo a riposo

Caro Adamishin,
Lei ha ragione, agli inizi del 1992 George H.W. Bush dichiarò pubblicamente che gli Stati Uniti avevano vinto la Guerra fredda. Ma era l’anno delle elezioni presidenziali e il presidente pensò probabilmente che un po’ di compiacimento nazionalistico avrebbe giovato alla sua rielezione. Continuo a pensare, tuttavia, che la sua politica verso la Russia, se fosse rimasto alla Casa Bianca, sarebbe stata più aperta e conciliante di quella dei suoi successori. Come dimostrò nei suoi rapporti con la Cina, dopo la dura repressione dei manifestanti di piazza Tienanmen, il vecchio Bush sapeva che gli Stati Uniti non avevano interesse a guastare con altezzosi pronunciamenti democratici o rivendicazioni nazionalistiche i loro rapporti con Pechino e con Mosca. L’uso politico di quella affermazione («abbiamo vinto la Guerra fredda») comincia con Bill Clinton, continua con Bush jr e non smette di condizionare la politica estera americana anche durante la presidenza di Barack Obama.
Questa affermazione è responsabile della convinzione, molto diffusa nella società americana, che l’America vincitrice abbia il diritto d’imporre ai russi tutto ciò che le sembra giusto e utile. Questo non è soltanto inopportuno. È anche storicamente sbagliato. L’Unione Sovietica non è stata sconfitta dall’Occidente democratico e, in particolare, dagli Stati Uniti. È stata sconfitta da se stessa. Il tentativo riformista di Nikita Krusciov non aveva dato alcun risultato. La lunga stagnazione brezneviana aveva congelato il regime e creato una gerontocrazia ottusa che aveva paura di qualsiasi cambiamento. L’apparizione di Gorbaciov sulla scena pubblica nella primavera del 1985 e il lancio della perestrojka al XXVII Congresso del partito, nel febbraio dell’anno seguente, crearono nella società sovietica attese e speranze. Ma le riforme proposte dal nuovo leader erano ispirate dalla convinzione che il partito comunista, dopo essere stato la spina dorsale dello Stato, potesse fare un passo indietro per diventare laboratorio di idee e progetti. Non basta. Gorbaciov credeva fermamente che occorresse restituire ai soviet, per la gestione politica e amministrativa del Paese, un potere che, nella realtà, non avevano mai avuto. E credeva che occorresse tornare a Lenin, come se il fondatore dello Stato non fosse responsabile di molti dei suoi vizi d’origine.
La crisi cominciò quando le riforme gorbacioviane ebbero l’effetto di delegittimare il vecchio sistema senza essere in grado di rimpiazzarlo con istituzioni autorevoli ed efficaci. Nel corso del declino dello Stato sovietico gli Stati Uniti, come ogni altra democrazia occidentale, non ebbero altra scelta fuor che quella di stare alla finestra. L’America non può appropriarsi di una vittoria che non è mai esistita.