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 2015  gennaio 22 Giovedì calendario

L’eurofelicità lituana. Un viaggio nel 19esimo paese che ha adottato la moneta europea

L’euro rischia di naufragare tra le isole greche del Mar Egeo e del Mar Jonio; e invece naviga gagliardo dal primo gennaio sulla sponda lituana del Mar Baltico. È come se la stessa valuta avesse due vite, vincolate sul piano finanziario eppure distinte per gli umori geopolitici. La stravaganza non è certo unica nell’area dell’euro. È quasi la norma. Nel caso greco-lituano è più evidente. Salta agli occhi appena metti piede in questa sofisticata città. Nel Sud mediterraneo l’Europa monetaria resta una conquista, ma può essere sofferta, o addirittura ripudiata. Qui, nell’estremo Nord, è invece un ulteriore ancoraggio rassicurante, aggiunto a quello già realizzato con l’Unione europea. E a quello, perché no ?, con la Nato, un’alleanza militare estranea all’economia, ma pur sempre un legame con l’Occidente. L’immagine è un po’ forzata, ma la si può azzardare: qui l’euro è anche un’arma.
Un’atmosfera da guerra fredda stagna su questa Europa come un banco di nebbia. C’è una profonda diversità tra i sentimenti, i timori, i problemi che prevalgono nel Nord e nel Sud. La Lituania è un piccolo Paese “in prima linea”, incollato alla grande Russia che lo vorrebbe sottomesso, ubbidiente, come è accaduto nella storia. I vari vincoli con l’Europa, politici o economici o militari, costituiscono un’arma difensiva. Oltre a essere l’esaudita aspirazione a un rapporto culturale contrastato da occupazioni e invasioni dei vicini prepotenti.
Nell’Europa del Sud le minacce provengono dal Vicino Oriente. E al terrorismo si aggiunge la crisi economica, quindi sociale e politica. Una crisi ritmata dai rimproveri e dalle regole severe dell’Europa efficiente, che vorrebbe in particolare una Grecia austera e disciplinata. Una tenzone non tanto velata è in corso tra il Sud e il Nord di cui la Germania è il centro dominante, e la Lituania un tassello. Nelle loro rispettive trincee Vilnius e Atene hanno di fronte avversari diversi, perché tali, diverse, sono state le loro esistenze. La Lituania è il diciannovesimo paese ad adottare la moneta unica, e lo fa con i conti a posto. La sua contabilità nazionale è (quasi) esemplare. La Grecia potrebbe essere il primo Paese ad abbandonare quella moneta unica che a Nord è un traguardo.
L’alba stenta ad affacciarsi, quando entro senza il minimo controllo nel palazzo presidenziale. Il lavoro comincia presto. Puntualità e semplicità sembrano di ispirazione scandinava. Forse sono virtù indigene. Nel cuore della capitale, dove si trova la dimora del capo dello Stato, si alternano palazzi barocchi, facciate rinascimentali, chiese gotiche. Ti senti in un’Europa gelosa della propria impronta, maltrattata nei secoli violenti, ma mai cancellata del tutto o subito restaurata. La timida luce crepuscolare disegna ombre eleganti fuori dal tempo. La scena cambia appena l’alba si impone. Si precisano allora le sagome dei palazzi, dei monumenti, delle chiese: ed è il fondale romantico della lunga tragedia di Vilnius. Più di un secolo fa quasi la metà degli abitanti erano ebrei. Per questo, ed anche perché gli studiosi della Torah erano tanti, la città era chiamata la Gerusalemme lituana. Durante l’occupazione, nella seconda guerra mondiale, i nazisti hanno ucciso 200mila ebrei in tutto il Paese. E ci sono stati gli anni dello stalinismo e della collettivizzazione forzata. Nel periodo sovietico la preziosa, vecchia Vilnius è stata strozzata con una periferia sciatta e uniforme servita da cappio.
Nel palazzo presidenziale parlo delle diverse angosce e frustrazioni europee. Evoco, con il mio (volutamente anonimo) interlocutore, le polemiche affiorate nei momenti cruciali della crisi ucraina. Quando l’indulgenza dei Paesi del Sud nei confronti della Russia sol- levò non poche perplessità. Per il governo di Vilnius l’aggressività della Russia di Putin avrebbe meritato una maggiore severità, anche perché la Lituania si sentiva direttamente minacciata, dopo l’annessione della Crimea. Da allora la Nato assicura una copertura aerea del Paese. In questi mesi, fino ad aprile, sono di turno anche quattro caccia italiani, accompagnati da 120 tra piloti e tecnici. Le provocazioni russe sono frequenti. Gli aerei che sorvolano le zone limitrofe alla Lituania per raggiungere Kaliningrad, l’enclave dove sarebbero acquartierati 100mila soldati russi, fingono a volte di puntare sullo spazio lituano, come se volessero violarlo. Questo alimenta la tensione. Appare una tattica intimidatoria. Come sono intimidatorie le trasmissioni delle tv russe che assediano psicologicamente i tre milioni di abitanti.
La crisi ucraina non ha diviso l’Europa in due fronti compatti, uno antirusso a Nord e uno filorusso a Sud. La linea di separazione è zigzagante. L’Unione europea si è scheggiata come una lastra di ghiaccio. Le varie sfumature dei rapporti con Mosca formano un mosaico geograficamente scomposto. La Repubblica Ceca, l’Ungheria, ad esempio, erano e sono piuttosto su posizioni filorusse, più di quanto lo siano quelle sudiste. Adesso i lituani tendono a sorvolare sui contrasti di allora. Quando ricordo le riserve nei confronti di Federica Mogherini, ritenuta troppo filorussa o non abbastanza russofoba, suscito soltanto qualche sorriso. Il fatto che sia diventata responsabile della politica estera a Bruxelles dimostrerebbe che quelle riserve sono finite. E comunque la presenza, sempre a Bruxelles, di Donald Tusk, l’ex primo ministro polacco adesso alla testa del Consiglio europeo, garantisce la linea dura degli anti-Putin.
La presidente della Repubblica, Dalia Grybauskaite, riconfermata per un secondo mandato, è il solo capo di Stato, maschio o femmina, ad essere un campione di karate. È cintura nera. Il suo carattere pare adeguato alla sua bravura nella tecnica di combattimento giapponese. Nella fase acuta della crisi ucraina ha dichiarato di essere personalmente pronta a imbracciare le armi se i russi avessero attaccato la Lituania. Essendo improbabile che questo accadesse le sue parole potevano apparire una bravata. Ma molti l’hanno presa sul serio. E non sono mancati i volontari per prepararsi a un’eventuale guerriglia nei fitti boschi del Paese, come ai tempi delle alterne presenze, sovietica e nazista. Dalia Grybauskaite ha detto di Putin: «Lui usa la nazionalità come pretesto per conquistare territori con mezzi militari. È esattamente quel che facevano Stalin e Hitler». In altre occasioni ha precisato il suo pensiero spiegando che la Russia era praticamente in guerra con l’Europa poiché era in guerra con l’Ucraina, Paese che vuole essere parte dell’Europa. Un manuale distribuito nel Paese descrive come ci si deve comportare nel caso di un’invasione russa. Lo stile della presidente non dispiace alla maggioranza dei lituani. Il linguaggio diretto, spesso rude, insolito in una donna colta di 58 anni, con una lunga esperienza politica anche in campo internazionale, qualche volta appare eccessivo, a chi ha dimenticato la storia delle Repubbliche Baltiche. L’annessione russa della Crimea ha ravvivato le inquietudini suscitate nell’agosto 2008 dall’offensiva russa in Georgia. E più in là nella storia ci sono 200 anni di presenza russa e 50 di sovietizzazione forzata. La nuova indipendenza del Paese ha appena un quarto di secolo. E su di essa pesa la dottrina dello “straniero vicino” secondo la quale tutti i Paesi limitrofi della Russia rientrano nella sua sfera di interessi. L’Unione euroasiatica varata da Putin è in fondo l’applicazione di quella teoria.
È dunque un ripetuto affronto a Mosca l’appartenenza della Lituania alla Nato, all’Unione europea e adesso alla sua moneta unica. L’arrivo nel porto lituano di Klaipeda di un terminal galleggiante, con il significativo nome di Indipendenza, è stato festeggiato come una vittoria nell’autunno scorso. Quella nave di 204 metri, affittata per dieci anni in Norvegia, ridurrà via via la dipendenza energetica della Lituania dalla Gazprom russa. Davanti allo sventolio di bandiere nazionali, Dalia Grybauskaite ha dichiarato con solennità, durante la cerimonia di Klaipeda, che il nuovo terminal garantirà la sicurezza delle Repubbliche Baltiche. La garantirà, era sottinteso, poiché il gas di cui hanno bisogno non arriverà più dalla Russia.
Un fantasma amico mi accompagna per le strade di Vilnius. Amico e anche utile perché ho l’impressione che mi spieghi luoghi per me nuovi. Con Romain Gary ho avuto per un breve periodo un rapporto assiduo, quando era uno scrittore di successo e al tempo stesso un diplomatico francese. L’ho incontrato poco prima che si suicidasse con un colpo di pistola. Aveva 66 anni, e quel giorno esibiva un’espressione tutt’altro che dimessa e un fisico in apparenza vigoroso. Un suo romanzo, firmato con uno pseudonimo, aveva vinto il Premio Goncourt. Ed era la seconda volta che otteneva il massimo riconoscimento letterario parigino. Ma per lui non valeva più la pena restare tra gli umani. Oltre un certo punto «il biglietto non è più valido» lasciava chiaramente intendere il titolo di un suo libro. Quale fosse il vero punto limite per lui, al di là della virilità cui teneva tanto, è un segreto che ha portato con sé nella morte.
La sua ultima immagine mi viene alla mente percorrendo le strade di Vilnius. Usciva dalla bocca del metrò parigino, stazione rue du Bac, vicino a casa sua. Portava un cappellaccio a larghe falde e sembrava di fretta. Il saluto fu spicciativo. Lo seguii con lo sguardo, mentre si allontanava di spalle. Come adesso pensai che era un enigma. Un enigma pieno di fascino. Un personaggio espansivo, con slanci di coraggio, avventuroso, sentimentale e con tanti intimi misteri che aiutavano il romanziere, ma non l’essere umano, alla vigilia del suicidio.
La sua città natale era Vilnius. Il suo vero nome era Roman Kacew. Era venuto al mondo al numero 16 di via Vielka Pohulanka, da una mamma ebrea come risulta dagli archivi del rabbinato di Wilno. Allora, nel 1914, Vilnius si chiamava cosi. Era nato russo, poi era diventato polacco, seguendo la sorte della Lituania. Lui si diceva «un ebreo bastardo patinato di tartaro». La vita randagia, con la madre intrepida e amata, l’ha condotto a essere anche georgiano. E infine, da adolescente, francese, ma con tutte quelle identità che si divertiva a enumerare, lasciandole nel vago, per sedurre o confondere l’interlocutore. Peccato che io non riesca a trovare la sua casa natale. Forse non c’è più.