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 2015  gennaio 22 Giovedì calendario

Prendo la laurea e scappo all’estero. Così hanno fatto più di duemila medici (su diecimila) lo scorso anno. Fuori li assumono volentieri, spiega Stefano Sartini che ora lavora in Inghilterra: «Mi sono specializzato a metà luglio e il 4 agosto, dopo una settimana di vacanza, ho fatto il mio primo giorno di lavoro al pronto soccorso dell’ospedale di Chester, vicino a Liverpool»

Mettono lo stetoscopio in valigia e se ne vanno. Scappano da un Paese dove per loro non c’è lavoro, malgrado le carenze di personale negli ospedali facciano pensare il contrario. Scappano dal precariato, da stipendi bassi e mai sicuri, da baroni che spadroneggiano in corsia e pazienti dalla causa facile. E scappano in numero sempre maggiore. In appena cinque anni i medici italiani che hanno chiesto al ministero della Salute i documenti necessari per ottenere un impiego all’estero sono sestuplicati. Erano 396 nel 2009, sono stati la bellezza di 2.363 nell’anno appena concluso, che ha segnato un vero boom di espatri. Nel 2013 infatti avevano fatto la domanda in meno della metà: mille. E questi numeri tengono conto solo di chi si è trasferito nei Paesi, prevalentemente europei, che richiedono all’Italia un certificato che confermi laurea ed eventualmente specializzazione. Chi va a lavorare altrove, ad esempio in Sud America oppure in Africa, sfugge ai calcoli del ministero.
C’è qualcosa che non torna nel sistema di formazione e di arruolamento dei medici nel nostro Paese. A dirlo, prima ancora dell’esodo di giovani uomini e donne che hanno impiegato fino a 11 anni della loro vita per diventare bravi professionisti, è la matematica. Ogni anno in Italia si laureano circa 10 mila camici bianchi, che subito dopo aver discusso la tesi si trovano davanti il primo imbuto. I posti nelle scuole di specializzazione sono solo 5mila (dovrebbero essere un po’ di più l’anno prossimo), altri mille sono quelli per il tirocinio di vuole diventare medico di famiglia. In 4mila dunque restano fuori. Così si mettono a fare le guardie aspettando di provarci l’anno successivo oppure vanno all’estero. Ma anche chi è riuscito ad entrare in una scuola e a concludere il percorso formativo si trova davanti un grosso problema. Nelle aziende sanitarie ed ospedaliere pubbliche da tempo un blocco del turn over che riduce le assunzioni al lumicino. E infatti nei reparti italiani i camici bianchi sono circa 5mila in meno rispetto al 2009. Le carenze denunciate dai sindacati dei medici si comprendono bene in periodi come quello che stiamo attraversando, con l’influenza che batte e i pronto soccorso che scoppiano per il grande afflusso di pazienti.
«Vanno tutti via perché il nostro sistema formativo non dà garanzie e oltretutto le opportunità lavorative e formative all’estero sono migliori». È laconico il commento di Federspecializzandi, l’associazione che raccoglie i giovani medici che stanno facendo la formazione post laurea. «Negli altri Paesi si sono resi conto che da noi ci sono molti colleghi già formati che cercano lavoro – conferma Carlo Palermo, vice segretario di Anaao, il sindacato più importante dei medici ospedalieri – E infatti assistiamo alle pubblicità, veicolate attraverso riviste specializzate ma anche social network, di Francia, Germania e Inghilterra che invitano i nostri giovani ad entrare nei loro sistemi sanitari». La tendenza nei prossimi anni aumenterà, anche perché all’estero “comprano” volentieri professionisti formati in Italia. «Bisogna intervenire in vari modi per invertire questa tendenza – dice sempre Palermo – Intanto vanno aumentate almeno fino a 8mila le borse di studio per le specializzazioni, poi va riaperto il turn over dentro gli ospedali. Dall’altro lato devono essere anche ridotti per alcuni anni gli accessi alla facoltà di Medicina, anche per riassorbire gli incrementi di iscrizioni legati alle sentenze dei Tar, che hanno riammesso molti dei candidati scartati facendo crescere il numero degli iscritti in certi anni anche fino a 12mila». Sono tante le strade che si potrebbero prendere ma bisogna fare presto. Sempre più medici osservano l’Italia che cerca di uscire dall’empasse da centinaia o addirittura migliaia chilometri di distanza.
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«Mi hanno preso dopo due interviste su Skype. Ora guadagno 3 mila e 500 sterline al mese». Stefano Sartini ha 31 anni e nel luglio scorso è stato uno dei primi specializzati italiani in medicina di urgenza. Già prima di concludere gli studi a Siena aveva trovato un contatto in Inghilterra attraverso un’agenzia e oggi ha uno stipendio simile a quello di un primario in Italia.Perché ha deciso di andare via?«Sapevo che adesso non c’erano prospettive. Nel mio Paese non avrei mai ottenuto un posto a tempo indeterminato. Dall’Ordine mi hanno mandato la brochure di un’azienda che offre lavoro in Inghilterra e ci ho provato».È stato difficile avere il contratto?«No, ho mandato il curriculum e ho fatto due interviste via Skype. Mi sono specializzato a metà luglio e il 4 agosto, dopo una settimana di vacanza, ho fatto il mio primo giorno di lavoro al pronto soccorso dell’ospedale di Chester, vicino a Liverpool».Come è inquadrato?«Sono un medico cosiddetto “junior”, praticamente sto ripetendo la specializzazione perché quella italiana nella mia disciplina, essendo nuova, non è riconosciuta a livello europeo. Comunque qui chi è nella mia situazione è già dentro il sistema, non deve fare più concorsi come in Italia».Quanto guadagna?«Lo stipendio è di 56 mila sterline all’anno, che al netto delle tasse significa 3.500 al mese, per quarantotto ore alla settimana. Se uno poi passa a medico “middle grade”, la seconda delle tre categorie in cui sono inquadrati i dottori qui, arriva anche a 100 mila sterline».Cosa pensa di fare nel futuro?«Adesso mi voglio spostare a Londra, ho trovato due ospedali che mi prenderebbero. Qui una volta che entri nel sistema è molto facile muoversi, i colleghi inglesi lo fanno spesso».Pensa di tornare in Italia prima o poi?«Per ora no, continuo a lavorare qui, ma l’idea in effetti è quella di rientrare tra un po’ di tempo, se riesco a vincere un concorso».