la Repubblica, 22 gennaio 2015
A crisi finita Obama si riscopre di sinistra. Dall’aiuto alla classe media, fino alla lotta all’Isis, passando per il negoziato con l’Iran e l’ospite a sorpresa dei repubblicani
Dal balcone sopra tramonto della propria presidenza, il primo capo di Stato americano che abbia spezzato il monopolio politico dell’uomo bianco in due secoli di storia americana racconta un futuro che per lui è già passato. Bentornato fra noi e addio, al Barack Hussein Obama di sinistra, riformista profondo, agente di un cambiamento che non è riuscito a realizzare come aveva promesso. «L’ombra della crisi è passata» ha annunciato e, almeno per gli Stati Uniti, è vero, ma l’economia del quotidiano resta brancolante nel grigiore di una ripresa che ancora non illumina le vite di coloro che vivono di stipendi e salari fermi.Era un uomo naturalmente invecchiato, rispetto al giovanotto che per la prima volta era salito sul podio del Senato per sporgersi davanti a una nazione che lo aveva acclamato ed eletto, nel primo Discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2008, i capelli inevitabilmente cosparsi dalla cenere del tempo, dello stress immenso e delle tante cose non fatte. Ascoltandolo nella sua oratoria ritrovata, liberata dalle preoccupazione elettorali, si ritrovavano tutti gli accenti, le promesse, addirittura le sonorità che avevano incantato settanta milioni di elettori sette anni or sono. Chi di noi lo aveva scoperto e seguito nelle nevi delle primarie del 2007 ha riconosciuto tutte le intenzioni e le promesse che erano echeggiate nei fienili dello Iowa, nelle scuole del New Hampshire, nelle chiese del South Carolina e avevano, per un istante, ricomposto la grande maggioranza Democratica.Obama ha toccato tutte le note della classica tastiera del “liberalismo” americano, dallo spartito rooseveltiano sulle “grande infrastrutture” da rifare e finanziarie con investimenti pubblici, agli accordi di Lyndon Johnson per costruire la “Grande Società” dei diritti, fino al pragmatismo un po’ cinico di Clinton, passando per i rintocchi dell’assistenzialismo missionario di Jimmy Carter, ma con poco Kennedy. Una sinfonia concertata su un elemento fondante: la ridistribuzione della ricchezza ricostruita dopo il crac del 2008 e fluita verso l’alto, gonfiando il portafoglio del cosiddetto “uno per cento”, ma lasciando in secca i 13 milioni in più che oggi devono mangiare con i Food Stamp, i buoni alimentari pagati dal governo; i lavoratori a salario minimo orario di 7 dollari («E se vi sembrano tanti, provate voi a vivere con 15 mila dollari all’anno», ha frustato sarcastico i repubblicani) e i milioni di donne che ancora oggi «non sono retribuite con pari paga per pari lavoro», quelle donne che furono la spina dorsale del suo trionfo elettorale.Successore di George W Bush, erede delle sue guerre e dello sfacelo del “Nation Building”, della illusione di poter costruire nazioni e sistemi politici a immagine, somiglianza e comodità dell’America jeffersoniana, si è rammentato della promessa di liquidare quei conflitti. Ha vantato il ritiro completo dall’Afghanistan – dove oggi, dice ottimisticamente, «le valli sono pattugliate da unità afgane» —, e la riduzione a poche migliaia di militari in quell’Iraq ormai in totale decomposizione cancrenosa, naturalmente con la promessa di cercare «soluzioni diplomatiche e multilaterali», muovendosi «a piccoli passi, come anche Sua Santità Papa Francesco invita a fare». Ma senza rinunciare al diritto americano del più forte, per «intervenire direttamente, se necessario» in quella guerra al vecchio e nuovo terrorismo, ora organizzato sotto la sigla dell’Is. «Il mio primo dovere resta la sicurezza del popolo americano». Questo mentre i Repubblicani gli promettono battaglia e, per ostacolare il negoziato con l’Iran, sfoderano a sorpresa un invito al premier israeliano Netanyahu, chiamandolo a illustrare davanti al Congresso riunito «la grave minaccia che l’Iran rappresenta per il mondo». «È un’infrazione del protocollo diplomatico», li rimbecca la Casa Bianca.Eppure tutto, nel lunghissimo discorso, uno dei tre più lunghi nella storia dei “Sotu”, degli State of The Union, dopo il verboso Carter e l’affabulatore Clinton, era musica per le orecchie di un elettorato che non potrà più votarlo («Ma intanto ho vinto le mie due» ha riso in faccia a chi ironicamente applaudiva da destra il suo quasi addio) e stridore di unghie sulla lavagna per quelli che appena tre mesi or sono hanno devastato il suo partito consegnando Camera e Senato ai repubblicani, grazie a un astensione del 67%. Ma se la gran parte delle sue parole erano riprese dal frigorifero delle promesse 2007, incluso l’immancabile monito sul riscaldamento della Terra che nel ‘14 ha segnato l’anno più caldo da quando si tengono temperature accurate, la pièce de résistance, il piatto di portata, era la proposta di giocare al Robin Hood fiscale. Portare via qualche cosa ai più ricchi, alla grande finanza, a quella Wall Street dove il suo indice di gradimento è al 17%, per restituire alla classe media tremila dollari all’anno, in riduzioni fiscali. Un super 80 euro.E qui, l’abisso ideologico fra il Barack ritrovato e già perduto e la destra repubblicana che controlla il borsellino delle finanze attraverso il Congresso, è incolmabile.Sono due visioni opposte, che da decenni si trascinano senza mai davvero sovrapporsi o superarsi. La fede nella trickle down economics secondo la quale la ricchezza sospinta verso l’altro sgocciolerà poi verso il basso per forza di gravità, essendo i ricchi coloro che investono, intraprendono, contribuiscono per il 40% al gettito fiscale e producono lavoro. E la convinzione opposta che senza la mano pubblica che sprema qualcosa da quelle tasche cucite, ben poco o niente “sgocciolerà” verso il basso, come gli ultimi anni sembrano dimostrare, nei quali Robin Hood si è trasformato nello Sceriffo di Nottingham Ma la tastiera di Obama è ormai muta. Potrà ottenere, perché elettoralmente conviene anche alla destra, l’aumento del salario minimo garantito da 7 a 10 dollari all’ora. Salverà la riforma dell’assicurazione sanitaria, il solo, vero “memoriale” alla propria presidenza, con milioni di americani in più meglio protetti e garantirà, a colpi di veto, quegli immigrati “clandestini” dei quali ha vietato la deportazione, nell’attesa di una lontana riforma delle leggi sull’immigrazione. Sottolineando il fatto con lo scandaloso e bellissimo gesto di invitare appunto una “illegale” di 22 anni, Ana Morales, portata bambinaia nel Texas da genitori senza documenti, a sedere nella tribuna d’onore accanto alla First Lady.Per il grande progetto Robin Hood invece non ci sono speranze o timori. Non passerà, non certo nei due anni che rimangono a Obama per ricordarsi delle illusioni divenute, per lui innanzi tutto, delusioni, per rimpiangere, per riconoscere, come tutti i suoi predecessori che il mondo, e la politica, sono molto diversi quando sono declamati dal pulpito di un comizio o visti dall’interno dello Studio Ovale. Perché se le ombre della crisi economica possono passare, l’ombra delle elezioni e dei calcoli di parte resta fissa sopra Washington. Invece di quell’ingrigito ragazzo che narrava il proprio testamento politico, senatori, deputati, magistrati, governatori, brasseur elettorali già cercavano di immaginare chi, fra Hillary Clinton, Jeb Bush, Romney o chissà chi altro, salirà al balcone nel gennaio del 2017. Per fare alla nazione promesse che lui, o lei, non manterrà.