La Stampa, 21 gennaio 2015
Così il dottor Mengele sceglieva chi mandare nelle camere a gas: elegantissimo, gentilissimo, ci guardava correre nudi davanti a lui
Io fui deportato, nella mia qualità di Ebreo, dall’Italia il 20 Febbraio 1944 e giunsi alla stazione di Auschwitz la sera del 26 Febbraio 1944. Il convoglio di cui facevo parte era composto di 650 persone, delle quali il più vecchio aveva 85 anni, il più giovane 6 mesi. Appena scesi dal treno, nella stessa banchina della stazione ebbe luogo la prima selezione; io ebbi la fortuna di essere giudicato abbastanza giovane e ancora atto al lavoro, mentre mia moglie (che era con me e dalla quale fui repentinamente e brutalmente separato) fu avviata la notte stessa alla camera a gas, come appresi dopo la liberazione da alcune sue compagne scampate. Nella stessa serata io, con altri 95 compagni, fui trasportato direttamente al Campo di Monowitz-Buna, ove ricevetti il numero di Matricola 174489 e dove rimasi fino al 17 Gennaio 1945, quando venni liberato dall’Armata Rossa. Durante tutti questi undici mesi, io dovetti lavorare in qualità di manovale presso diversi «Kommandos», tutti compiti molto faticosi; erano sempre lavori di scarico o di trasporti, non essendo mai riuscito a far valere presso l’«Arbeitsdienst» la mia qualità di medico e perciò non mi fu data la possibilità di entrare come medico o anche soltanto come semplice infermiere nel «Krankenbau».
Le mie condizioni fisiche ebbero naturalmente a subire un rapido e grave tracollo per la durissima fatica cui ero – come tutti gli altri prigionieri – sottoposto e che qui non è il caso di descrivere, anche perché oramai le condizioni di vita nei Lager sono note a tutti. Così, come è risaputo da tutti, ogni tanto si procedeva nei Lager alle cosiddette «selezioni», a quell’esame cioè delle condizioni fisiche dei prigionieri per rilevarne l’attitudine al lavoro: coloro che in seguito alle fatiche, alle sevizie, alla fame o alle malattie erano ridotti in uno stato di deperimento tale che ne compromettesse le possibilità di resistere al massacrante lavoro, erano avviati alle camere a gas.
Queste selezioni, nel campo di Monowitz, avvenivano in due tempi: la prima scelta era fatta da un ufficiale delle SS assistito dagli stessi medici del Krankenbau del campo e alcuni giorni dopo giungeva il dottor Mengele a sanzionare, attraverso una seconda visita, altrettanto rapida e superficiale, la scelta operata dal primo. Entrambi gli esami erano, come ho detto, ridicolmente sommari: un’occhiata era sufficiente per stabilire un giudizio; e se, dopo la prima scelta, poteva persistere nei più ottimisti una sia pur debolissima ed ingenua speranza di potersi ancora salvare, la seconda scelta – quella operata dal dottor Mengele – era definitiva e rappresentava un giudizio inappellabile e una sentenza irrevocabile di morte.
Il dottor Mengele si presentava al campo sempre in divisa irreprensibile e molto elegante e quasi raffinata, con gli alti stivaloni lucentissimi, i guanti di pelle, un frustino in mano; e mentre procedeva al tremendo esame assumeva un’aria sorridente e quasi gentile; con il frustino, man mano che i giudicandi sfilavano di corsa, nudi, davanti al suo sguardo, e si fermavano un attimo davanti a lui, indicava con suprema indifferenza il gruppo al quale il suo giudizio infallibile aveva assegnato il prigioniero: a sinistra i condannati, a destra quei pochissimi fortunati che egli giudicava ancora atti al lavoro, almeno fino alla prossima selezione. (…)