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 2015  gennaio 21 Mercoledì calendario

Brescia, terra di miliardari e non ce n’è uno che voglia tirar fuori un euro per salvare la squadra dal fallimento

La polvere di ferro quasi la vedi e la tocchi, nell’aria lattiginosa delle tre valli che separano la città dal lago di Garda. Così la chiamano Iron Valley, questa provincia che trasuda laboriosità, capannoni industriali e ricchezza, quinta in Italia per abitanti, terzo motore economico del paese, terza per presenza di immigrati regolari.
In alcune zone, come a Lumezzane, c’è un’impresa ogni 12 persone. È un trionfo di colossi imprenditoriali o di industriole, la valle del ferro dove il ferro diventa acciaio per produrre macchine utensili d’ogni tipo, o camion e tir, o armi, o tondini, rubinetti, posate, ma ci sono anche quelli che lavorano il cuoio per le scarpe o i tessuti per l’abbigliamento, o i materiali di costruzione, e arredamenti, e sanitari per bagni. Chiunque di noi ha in casa, o possiede, qualcosa che è stato fabbricato qui. Conseguenza logica: a Brescia e dintorni in molti hanno conti in banca a sei zeri. Conseguenza illogica: non un cane tira fuori un euro per salvare il glorioso Brescia calcio, 103 anni di vita, il club col record di campionati giocati in serie B ma che in A ha fatto spesso parlare di sé, e quanto. Basti solo un elenco sommario di gente passata, nata o risorta qui: Hagi e Raducioiu, Pirlo e Baggio, Guardiola, Hubner, Toni, Hamsik. Nel maggio 2001 l’apice col settimo posto in A, con un Baggio miracoloso e Mazzone che si inventa, profetico, Pirlo regista, fino alla finale Intertoto persa col Psg di Anelka e Okocha.
Sono trascorsi nemmeno 14 anni, e in mezzo c’è stato il terremoto di Calciopoli per il quale il club chiede ancora un risarcimento danni (retrocesse al posto di Fiorentina e Lazio che furono salvate dalla giustizia sportiva), eppure due sere fa il Brescia ha temuto per la sua stessa vita: non fossero arrivati in extremis 800mila euro per saldare un debito con il fisco, si sarebbe dovuto sbaraccare. Per questo ieri pomeriggio al campo i giocatori erano euforici, ed è bastata una soluzione spettacolare nell’ultimo torello prima della seduta tattica per vederli abbracciarsi e rotolarsi sul prato. Ancora vivi, nonostante tutto. Pare grazie a una finanziaria di nome Profida, a Rinaldo Sagramola e all’immancabile Infront, e ovviamente a nessun bresciano.
È un complicato intrigo di debiti, crediti, banche e malumori cittadini, la storia del Brescia che teme di sparire. Il presidente Gino Corioni, 77 anni di cui 49 nel calcio e 22 alla guida del Brescia, un mostro di combattività anche per via di certi gravissimi problemi di salute che ha attraversato, la scorsa estate capitola: non può più iscrivere al campionato il club, gravato da 35 milioni di debiti che però, al netto dei crediti che vanta, in realtà sono 12. Tre anni fa i debiti erano il quadruplo, ma la cessione di giocatori per un totale di 40 milioni ha eroso il passivo. Il salvataggio e l’iscrizione arrivano infine, fuori tempo massimo, da una cordata di industriali guidati da Marco Bonometti. Ma a quel punto il Brescia viene commissariato dalla banca Ubi, nella doppia veste di sponsor della squadra e principale creditore. La banca, che ha la testa a Bergamo, azzera le cariche sociali e nomina un amministratore unico, Luigi Ragazzoni. Inizia una stagione terribile, con la certezza di non poter arrivare a giugno per le spese correnti, una penalizzazione di 3 punti che è già certa per il ritardo nell’iscrizione e un altro – 3 in arrivo per il mancato pagamento di stipendi, mentre si presentano anche improbabili compratori come il pakistano Sheikh Abdul, che poi sparisce. Gli strali dell’ambiente si concentrano sulla banca Ubi, che secondo alcuni vorrebbe far morire il club in omaggio a oscure logiche territoriali (Bergamo contro Brescia) o finanziarie, visto che Corioni avrebbe dato in garanzia 13 milioni di suoi beni personali. L’Airone Caracciolo, dieci stagioni da centravanti del Brescia, ha dato un segnale chiaro, ritirando il proprio conto dalla banca tiranna. La città non si spiega perché nessuno voglia intervenire: il club ha un costo del lavoro di 5,2 milioni all’anno (altre squadre in B hanno un budget triplo o quadruplo), debiti tutto sommato contenibili (i 7 milioni di Iva saranno spalmati in 7 anni) e prospettive di crescita. Ma forse a lor signori dello sport bresciano non frega davvero niente, si sussurra, e giù a ricordare come la ginnasta Vanessa Ferrari si dovesse allenare in una palestra col tetto talmente basso da non poter provare i volteggi, o come il nuotatore Giorgio Lamberti negli anni Ottanta stabilì un record mondiale nei 200 sl lavorando in una vasca non regolamentare, perché la prima a Brescia l’hanno inaugurata un anno fa. Ma adesso, dopo che Andrea Pirlo ha promesso di aver parlato «con chi di dovere» per salvare il club, fermi tutti, forse si vede la luce. Dietro il pagamento di 800mila euro di lunedì ci sarebbe la finanziaria Profida, che a dicembre aveva presentato un piano (2 milioni cash, più 9 in 5 anni garantiti da Infront contestualmente alla costruzione di un nuovo stadio) che la banca Ubi aveva misteriosamente respinto. Profida, Infront e Sagramola potrebbero essere il futuro, aspettiamo, vediamo. Sono loro che possono salvare il Brescia: una finanziaria svizzera con base italiana a Milano, un’azienda svizzera ma con ramificazioni nel mondo e un dirigente sportivo nato a Roma. Del resto nella Iron Valley era già pieno di stranieri, no?