Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2015
Facciamo chiarezza: il Quantitative easing di Mario Draghi non è un’operazione che migliora la solvibilità degli Stati, compensa la scarsa competitività dei sistemi, si sostituisce alle riforme strutturali. È una pura e semplice iniezione di liquidità
Non si sa come sarà il quantitative easing esteso ai titoli di Stato della Banca centrale europea di Mario Draghi. Però si sa già quello che non sarà: non è un’operazione che migliora la solvibilità degli Stati, compensa la scarsa competitività dei sistemi, si sostituisce alle riforme strutturali. È una pura e semplice iniezione di liquidità.
Ma era inevitabile che, diversamente da quello che è accaduto con il QE della Federal Reserve, della Banca del Giappone o della Bank of England, il quantitative easing della Bce diventasse un caso di solvibilità, scatenando l’ennesimo animoso e animato dibattito sul rischio sovrano. La Banca centrale europea, vale sempre la pena ricordarlo, è l’unica banca centrale al mondo responsabile per la politica monetaria, l’inflazione e la moneta di 19 nazioni con merito di credito diverso tra loro. Il QE esteso ai titoli di Stato, un’ovvietà in Usa, Giappone e Regno Unito, diventa nell’Eurozona una mostruosità. È inevitabile che sia così perchè la Bce dovrà trovare una formula inattaccabile per mettersi in pancia titoli di Stato con rating “AAA” come quelli di Germania, Finlandia, Francia e Olanda (e non di tutte e quattro le principali agenzie di rating), con le singole “A” di Irlanda, Lettonia, Lituania, Slovenia e Slovacchia, con le “triple B” di Italia e Spagna per finire con la “doppia B” del Portogallo e la “C “della Grecia, gli ultimi due nella categoria dei rating speculativi.
Il sospetto, il timore che l’acquisto copioso da parte della Bce di titoli di Stato di un Paese con un alto (o medio o basso) rischio di insolvenza possa in qualche modo aiutare artificialmente la politica fiscale di quel Paese, allentando la pressione dei mercati e rallentando il cammino delle riforme, è diffuso tra gli Stati “core”. Ma gli strumenti non convenzionali standard della politica monetaria, il QE, non possono e non devono essere scambiati per aiuti di Stato sottobanco: perchè non lo sono. Il dibattito sull’opportunità o meno del QE nell’Eurozona dovrebbe piuttosto concentrarsi su valutazioni tecniche: si può discutere fino a che punto la deflazione sia una minaccia concreta e reale per tutti i 19, se il QE con acquisto di titoli di Stato, bond societari, covered bond e ABS (cartolarizzazioni) possa funzionare in un sistema finanziario come quello europeo dove il principale canale di finanziamento all’economia resta quasi esclusivamente quello bancario e non quello del mercato dei capitali.
Il QE della Bce è strozzato dal nodo scorsoio della politica sul rischio sovrano: gli Stati core non ci stanno a esporre il bilancio della Bce al rischio di insolvenza degli Stati periferici più deboli: non intendono esporre i propri bilanci pubblici, e quindi i soldi dei contribuenti, perché in qualità di azionisti della Bce verrebbero chiamati a ricapitalizzare la banca centrale europea in caso di perdite. Ma dall’altra parte gli Stati periferici non ci stanno a fare a meno di uno strumento di politica monetaria che, fossero stati indipendenti, avrebbero già utilizzato.
Se il QE di Mario Draghi sarà un compromesso, orchestrato dalla Bce attraverso i bilanci delle banche centrali nazionali, (la liquidità resterà iniettata dalla Bce comunque esposta alle banche nazionali) non sarà un compromesso al ribasso: sarà un altro piccolo passo in avanti verso gli Stati Uniti d’Europa.