Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 21 Mercoledì calendario

Difendono il sistema delle Banche Popolari esponenti di sinistra come Fassina («democrazia economica») oppure ciellini come il ministro Lupi, che nel consiglio di ieri ha votato contro. In poche parole: è una vittoria della logica capitalista e finanziaria contro il criterio del governo politico del credito

MA. Nel tempo dei partiti di massa c’erano Don Camillo e Peppone. Nell’epoca della politica liquida i confini svaniscono e si formano le inedite alleanze trasversali, come quella dei “resistenti” alla riforma delle grandi banche popolari rette dall’anomalo voto capitario, che va bene in democrazia ma ben poco si adatta alla governance di holding finanziarie che puntano al profitto più che allo svolgimento di una funzione mutualistica. Insieme cattocomunisti, come Beppe Fioroni e Stefano Fassina. E insieme (come un tempo) tutti i forzaleghisti, compresi gli scissionisti dell’Ncd, tra i quali spicca il ciellino lombardo Maurizio Lupi (ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture) che nel Consiglio dei ministri di ieri ha espresso il suo parere negativo sul decreto legge presentato da Pier Carlo Padoan. Che certo – detto non troppo per inciso – non avrà fatto piacere nemmeno a Pier Luigi Boschi, vicepresidente della “cattolica” (nel senso della finanza) Banca dell’Etruria, padre del ministro delle Riforme, Maria Elena. Perché le banche popolari sono, da sempre, luoghi di intrecci di interessi politici, finanziari e sindacali locali. Alcune sono nate addirittura nelle case dei vescovi. Oggi del colosso dell’Ubi è azionista (e ha diritto al voto) pure la Congregazione delle Suore ancelle della carità di Brescia, come il Convento delle religiose di San’Orsola di Brescia. Un pezzo di finanza cattolica, guidata ancora dal bresciano Giovanni Bazoli. I partiti non decidono più direttamente, come nella prima Repubblica, i vertici delle popolari. Ci sarà un po’ meno cooptazione, ma il metodo resta comunque politico: bisogna organizzare il consenso per avere la maggioranza delle assemblee nelle quali ciascun socio ha un voto a disposizione indipendentemente dal pacchetto di azioni possedute. E allora chi è più bravo a organizzare il consenso, di dipendenti, pensionati e semplici azionisti, vince. Tipica attività, appunto, della politica. O dei sindacati. Il cruento scontro all’interno della Banca popolare di Milano, dopo la lunga presidenza del democristiano Roberto Mazzotta, ne è stato un clamoroso esempio. Nel mercato finanziario si comprano le azioni e si prova a scalare un’impresa o una banca, nelle popolari no. Eppure Gianpiero Fiorani, tentò con la compiacenza dell’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, di scalare Antonveneta con la sua Popolare di Lodi sfidando gli olandesi di Abn Amro. Poi arrivò il Monte dei Paschi di Siena di Giuseppe Mussari che “popolare” non era e non è, ma che, dopo la bocciatura agli stress test della Bce di Mario Draghi, potrebbe diventare preda di una delle grandi popolari “normalizzata” in società per azioni. Anche per questo, ora, i sindacati temono una nuova ondata di esuberi tra i bancari dopo i 68 mila posti persi negli ultimi quindici anni, «nel totale disinteresse dei partiti», come ha ricordato il segretario generale del sindacato autonomo Fabi (il più rappresentativo nella categoria), Lando Maria Sileoni. Tra nobili argomenti ideologici e evidenti interessi, è, dunque, la difesa del territorio il collante dei “resistenti”. Lo dicono i leghisti di Matteo Salvini che però, come dimostrano le indagini di Ilvo Diamanti, sono diventati nazionali e ambiscono alla leadership del centrodestra. Lo dice anche il democratico dissidente Stefano Fassina: «Questo è un colpo sciagurato all’economia reale, tanto più perché realizzato per decreto». Aggiunge Fassina che le banche popolari «sono rimaste l’unico presidio di democrazia economica». «È un grosso regalo agli investitori esteri. Penso che a Londra saranno molto contenti...». Voluto riferimento al Fondo Algebris di Davide Serra, amico di Renzi, protagonista delle Leopolde. La questione, insomma, è molto politica. «A riprova – come ha scritto sul sito lavoce. info l’economista Luigi Guiso – che le banche popolari di “cooperativo” non hanno molto». Presidio di democrazia economica, per Fassina; presidio di italianità, secondo Paolo Cirino Pomicino, democristiano di fede andreottiana, ex ministro del Bilancio, protagonista nel rito della spartizione del potere (anche finanziario) nella “Repubblica dei partiti”. Dice che a parte Intesa («resiste grazie a Cariplo») il grande credito italiano è ormai in mani straniere. «Stiamo rischiando di fare la fine dell’India nell’impero britannico: mercato di consumo per produttori in conto terzi». Già, ma la finanza bianca? «Le popolari sono sopravvissute al crollo della Dc. Ma i democristiani non ci sono più». Lo pensa anche Bruno Tabacci, già scudocrociato, oggi parlamentare del Centro democratico, che molto si è occupato del sistema del credito. Spiega che è necessaria «trasparenza» nel modello delle popolari perché non diventino esclusivamente «un residuo di potere locale». E di fronte ai suoi ex compagni di partito come Fioroni che difendono il vecchio modello diventa sarcastico: «Rimembranze». Questa è la lenta fine di un’epoca, allora. Per quarant’anni e passa, le popolari italiane hanno resistito a qualsiasi tentativo di riforma. Ora è cominciato l’ultimo giro della resistenza. E l’italiano Mario Draghi da Francoforte, probabilmente, ha detto anche la sua.