La Stampa, 21 gennaio 2015
Rivoluzione nel mondo delle Banche Popolari: le dieci più grandi dovranno trasformarsi in società per azioni, diventare cioè contendibili. Hanno diciotto mesi di tempo per adeguarsi. Renzi è intervenuto per decreto
E decreto fu. Matteo Renzi si lascia alle spalle tutti i distinguo, i no e i dubbi piovuti sul tavolo e fa approvare al consiglio dei ministri la norma che impone alle dieci grandi banche Popolari di trasformarsi compiutamente in società per azioni entro 18 mesi. Le resistenze erano molte: della politica, che ha tentato fino all’ultimo di far saltare il banco, delle stesse banche, che chiedevano tempo, ma soprattutto della Banca d’Italia, favorevole nel merito ma non nel metodo. Fino all’ultimo i vertici della vigilanza, tagliati fuori dalla stesura delle norme (in questa materia non era mai accaduto) hanno tentato di convincere Palazzo Chigi e Tesoro a scegliere la strada più prudente del disegno di legge. «Il decreto sulle Popolari? Non ho nessuna idea. Non lo so», diceva ieri mattina il governatore Ignazio Visco ai cronisti che lo rincorrevano.
Da vent’anni – era il 1994 – in Banca d’Italia si discuteva di come superare il sistema di governo di aziende di credito nel frattempo diventate troppo grandi per continuare ad essere gestite così. Il principio «una testa un voto» può apparire un modello di gestione aperto e trasparente, ma la storia degli ultimi anni ne ha dimostrato tutti i limiti: il peso eccessivo della politica, l’autoreferenzialità dei manager, la difficoltà a trovare maggioranze disposte a fare rapidamente scelte strategiche. Dai casi Bpm a quello della Popolare di Lodi le cronache di questi anni avevano convinto tutti della necessità di una riforma, salvo non avere mai la forza di andare fino in fondo.
La decisione di Renzi di procedere per decreto è partita da una esigenza avvertita: presentarsi all’avvio della nuova vigilanza della Banca centrale europea con le carte in regola. Bruxelles ha tentato di aprire per ben due volte una procedura di infrazione (nel 2003 e nel 2005) per violazione del principio di stabilimento e di libera circolazione dei capitali. Il sistema di voto capitario ha infatti un ulteriore limite: impedire o quasi la possibilità di scalate, la cosiddetta «contendibilità» proprietaria. Il criterio scelto dal governo per decidere quali banche far rientrare nell’obbligo di legge è quello dell’attivo patrimoniale: chi supera gli otto miliardi è vincolato alla trasformazione. Si tratta di Ubi banca, del Banco popolare, del Credito valtellinese, di Veneto banca, della Banca dell’Etruria e delle popolari dell’Emilia, di Milano, Sondrio, Vicenza e Bari. Sette di queste sono già quotate in Borsa, così come sette su dieci sono già sottoposte alla vigilanza Bce. Eppure ben due di queste (Veneto banca e la Popolare di Vicenza) non sono nemmeno quotate. Le banche sotto la soglia, «se vorranno, potranno rimanere quello che sono», ha spiegato Renzi. Così come restano fuori dall’obbligo di legge i piccoli istituti di credito cooperativo. Un’ulteriore novità riguarda invece tutti: le banche che non rispetteranno l’obbligo europeo di concedere la portabilità del conto corrente entro 15 giorni dovranno risarcire il cliente. Per l’entità del risarcimento si attende il testo definitivo del decreto, tuttora indisponibile.
Twitter @alexbarbera