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 2015  gennaio 21 Mercoledì calendario

Il presidente della Repubblica è potente perché così vuole la Costituzione. Bisognerebbe eleggerlo col voto palese

In nessun capitolo come in quello riguardante il capo dello Stato, la Costituzione materiale della Repubblica, cioè quella che vige di fatto, lungi dal forzarla o tradirla ha viceversa portato alle estreme conseguenze la Costituzione scritta.
Come si sa, la versione ufficiale è invece opposta. Si dice abitualmente, infatti, che proprio per ciò che riguarda il presidente della Repubblica vi è stato, sì, tra la lettera e la realtà uno scostamento significativo, per cui quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico. Ma ciò sarebbe avvenuto – si sostiene – per effetto di contingenze particolari: prima fra tutte il vuoto politico che ha dovuto necessariamente essere riempito da chi in qualche modo poteva farlo. E con l’aiuto dei poteri provvidenzialmente «a fisarmonica» (la definizione come si sa è di Giuliano Amato) attribuitigli dalla Carta: cioè di poteri estensibili o restringibili in modo da adattarsi alle circostanze. Peccato – aggiungo io – che la misura dell’adattamento, non potendo ovviamente essere decisa dalle circostanze stesse, venga rimessa in pratica alla libera (e inoppugnabile) interpretazione che di esse dà il presidente: vale a dire a una sua decisione arbitraria. Quale fu ad esempio quella del presidente Napolitano nell’autunno 2011 di non sciogliere le Camere dopo la caduta del governo Berlusconi, bensì di affidare il governo a Mario Monti.
In realtà, disporre legittimamente di un potere d’intervento politico esercitabile a piacere come quello ora accennato, significa disporre di un potere con ogni evidenza rilevantissimo. Tali sono, peraltro, tutti i poteri del presidente, anche quelli diciamo così di routine: tutti con una forte valenza politica e rimessi alla sua esclusiva volontà. Da quelli più formali a quelli più informali: dalla nomina dei giudici della Corte costituzionale alla decisione di approvare, respingere o «consigliare», come è capitato spesso, la nomina di un ministro o la presentazione di un disegno di legge.
Ne segue che il carattere oggettivamente e spiccatamente politico del ruolo del presidente della Repubblica più che essere frutto di circostanze «particolari», è in realtà iscritto a chiare lettere nel testo stesso della Costituzione. I cui autori pensavano di scrivere la Costituzione di una democrazia parlamentare, ma in corso d’opera hanno disegnato nei fatti un capo dello Stato che per molti aspetti assomiglia più che altro al Sovrano dello Statuto Albertino. Certo, questa o quella circostanza ha potuto contribuire in modo particolare a enfatizzare e «politicizzare» il ruolo in questione (come del resto accadeva anche sotto la monarchia). Ma soprattutto, io direi, hanno contato il temperamento e la biografia di chi è stato chiamato a interpretarlo: dal modo notaril-notabilare, distaccato, di un Einaudi, un Leone, un Ciampi, siamo passati a quello intimamente politico e interventista di un Gronchi, un Pertini, un Napolitano.
Quanto detto finora sottolinea il carattere assolutamente incongruo del modo della nomina del Presidente: cioè il voto segreto. Il quale infatti, e come è del resto la regola nel parlamentarismo, lungi dal garantire la vittoria del «migliore» in quanto frutto della libertà di coscienza dei parlamentari, favorisce viceversa solo il carattere quasi sempre opaco, «contrattato» e talora volutamente «inquinante», del meccanismo di formazione della maggioranza. Non a caso l’elezione del capo dello Stato è da sempre il grande appuntamento della stagione per i «franchi tiratori». Da questo punto di vista è alquanto singolare che nella nostra Costituzione il voto palese, prescritto per il voto sulla fiducia al governo per ragioni di chiarezza e di moralità politica, non lo sia per la designazione del presidente della Repubblica.
Il risultato è in questi giorni sotto gli occhi di tutti: la persona destinata a ricoprire la carica politica divenuta la più importante del nostro sistema viene scelta nell’ombra, al di fuori di qualunque orientamento non dico dei cittadini elettori ma dell’opinione pubblica largamente intesa. Intorno alla sua elezione si annodano così trattative segrete, conversazioni riservate, giochi, inganni, depistaggi: insomma tutto il repertorio del machiavellismo da poveracci della peggiore tradizione nazionale. Che almeno, però, serve a mostrare come stanno effettivamente le cose al di là della solfa edificante sul «garante», l’«arbitro», il «super partes», e altrettali definizioni. E cioè che partiti ed esponenti politici sono così consapevoli della realtà della posta in gioco – e cioè mettere il proprio cappello sul vertice del potere, ovvero impedire che lo metta l’avversario – che brigano in ogni modo per essere nel novero degli elettori, per non restarne esclusi, cercando possibilmente di escludere i rivali.