La Stampa, 20 gennaio 2015
Piercamillo Davigo ha fondato una nuova corrente nella magistratura ma fa sapere di non volersi candidare in politica: «Nessuna discesa in campo, mando un video alla kermesse dei grillini ma non entro nel M5s. Le correnti delle toghe hanno ancora un senso: servono a diventare più saggi»
È vero che ha fondato una nuova corrente nella magistratura, abbandonando Magistratura Indipendente di cui era candidato presidente, ma Piercamillo Davigo, giudice in Cassazione, ex magistrato di punta di Mani Pulite, non ha alcuna intenzione di scendere in politica. Né di schierarsi con un partito. In particolare i 5 Stelle che, sul blog di Beppe Grillo, annunciano la partecipazione del magistrato alla “notte della legalità”.
Perché ci va, allora, dottor Davigo?
«Innanzitutto non è vero che ci vado, perché semplicemente non posso. In compenso manderò un mio intervento video registrato»
Eppure è bastata questa adesione per mettere in fibrillazione qualcuno nel mondo romano: Davigo va in politica con Grillo.
«Io vado a parlare dove mi invitano perché mi vogliono ascoltare. Detto questo vorrei che fosse chiaro che non ho alcuna intenzione di scendere in politica. Io sono dell’opinione che i magistrati non si debbano occupare di politica. Infatti nel mio intervento parlerò d’altro».
Non è la prima volta per lei che suonano le sirene della politica.
«Ci sono due modi per conferire incarichi, il criterio di competenza e quello di rappresentanza. Un sindaco, ad esempio, viene scelto per rappresentanza, un chirurgo per competenza. I magistrati sono scelti per un criterio di competenza tecnica, in più hanno le guarentigie per non dover dipendere, nelle loro scelte, dall’opinione pubblica. Questo per dire che: dopo che uno per anni è abituato a decidere con criteri di competenza e senza tener conto della pubblica opinione, il minimo che può succedere è che sia un pessimo politico».
Oggi però si dice anche che la competenza sia un optional gradito in politica e, proprio per questo, dopo Mani Pulite, qualcuno pensò a lei come ministro.
«Anche all’interno della magistratura, ho sempre ricoperto incarichi malvolentieri e quando l’ho fatto era solo perché mi era stato chiesto. E poi ho sempre pensato che l’ambizione di un magistrato sia un vizio da estirpare e non da coltivare. Il punto è che quando io faccio un processo non mi pongo il problema di ciò che conviene fare, ma se un imputato è colpevole o innocente. Il politico ragiona magari diversamente. E persino nei casi di politica nobile, i termini di valutazione attengono l’opportunità e non la verità o la giustizia».
Veniamo alle correnti nella magistratura. Hanno ancora un senso?
«Si, rappresentano le divergenze e le opinioni diverse tra i magistrati. L’insieme delle opinioni serve a diventare più saggi».
Dall’esterno però vengono vissute come divisioni profonde e guerre per bande.
«Non è così ma possono esserci delle degenerazioni. Io ho sempre trovato inaccettabile che uno possa essere privilegiato solo perché è della mia corrente e non il più bravo. Ma non è sempre così. Comunque il nostro è un mondo troppo complicato perché qualcuno possa dare un ordine, se esistesse un capo dei giudici che dà gli ordini, saremmo come una qualsiasi pubblica amministrazione».