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 2015  gennaio 20 Martedì calendario

Da Uber a Airbnb, molte società innovative stanno smontando consolidati modelli di impresa e di gestione degli affari. Creano enormi ricchezze ma non creano occupazione stabile: un esercito di impresari di se stessi senza sicurezze

È possibile introdurre per legge un mercato del lavoro a tutele crescenti in una società basata sulle risorse decrescenti? Il Financial Times ha dedicato tra il 29 e il 31 dicembre scorsi tre pagine ai nuovi business disruptive, cioè quell’insieme di società tipicamente californiane che smontano vecchi ma consolidati modelli di gestione degli affari. Gli esempi sono ormai noti anche al lettore italiano: Uber sta intaccando il sistema dei trasporti tradizionali cittadini come i taxi, Airbnb sta mettendo in discussione l’intero settore dell’accoglienza, Spotify sta già causando il declino di un’industria che ha soli 10 anni di vita: quella della musica in download che, a sua volta, aveva causato la sostanziale fine dell’era dei compact disc e aveva spostato il centro del potere dalle case discografiche a società come Apple. Ancora: Netflix sta dando una spallata alla tv commerciale che ha rappresentato, negli ultimi trent’anni, uno dei poteri forti, non solo economici. Ora, con un tasso di disoccupazione che per l’Unione europea a 28 viaggia sull’11,5% (Eurostat, dati novembre 2014) la vera domanda è se questa nuova economia riesca a produrre posti di lavoro. Proprio ieri il fondatore di Uber, Travis Kalanick, ha promesso di creare «50 mila posti di lavoro in Europa nel 2015», diventando un «importante generatore di lavoro». Un’affermazione che richiede un’attenta analisi.
Il processo di trasformazione del mercato del lavoro occidentale era già iniziato oltre un decennio fa, non senza tensioni: l’industria della musica docet. Ma questa nuova ondata di modelli di business disruptive è portatrice di caratteristiche differenti rispetto alla prima fase temporale che va dal 2000 al 2010 in quanto non si limita a digitalizzare il mondo della cultura in senso lato (musica, libri e giornali, essendo fondamentalmente l’elaborazione di simboli, possono essere sostituiti facilmente dai bit) ma attacca anche il mondo fisico. Taxi e hotel sono dei casi fin troppo eloquenti.
La tesi del Financial Times è che, insieme alla distruzione, queste società portino anche opportunità e il giornale inglese cita Henry Ford («se avessi dovuto seguire i miei clienti avrei dovuto fornire dei cavalli più veloci»). Ford uccise la carrozza ma produsse industrialmente l’automobile. Se ciò che avvenne all’inizio del Novecento è vero va sottolineato che oggi l’economia digitale sta cambiando profondamente anche il rapporto tra industria e quella che possiamo chiamare occupazione diretta. Il modello del capitalismo che, volenti o nolenti, abbiamo accettato già prevedeva e anzi teorizzava che le risorse del mondo dell’occupazione fossero decrescenti: con la carriera occupiamo posti di lavoro pagati di più ma questi, man mano che saliamo la scala gerarchica, diventano sempre di meno. È su questo principio che si è sempre basata la competizione individuale. E questo fenomeno si sta ora amplificando. AirBnb è valutata 18 miliardi di dollari ma occupa poche centinaia di persone. Uber vale 40 miliardi ma sapete quanti posti di lavoro ha creato nel senso tradizionale del termine? Kalanick stesso, all’inizio del 2014, aveva parlato di 550 dipendenti che potevano salire a mille nel corso dell’anno. Quando Facebook si è quotata aveva solo 3.200 persone sul libro paga. Certo, non va sottovalutato quanto queste società fanno guadagnare a chi diventa in parte utente e in parte imprenditore di se stesso mettendo in Rete i propri appartamenti o la propria automobile sulle piattaforme californiane (sono questi i famosi 50 mila che promette Kalanick) ma un posto di lavoro è un’altra cosa.
La verità è che queste società creano enormi ricchezze e anche lavoro ma non il «posto di lavoro» per come l’abbiamo sempre pensato. Con la grammatica del Novecento chi guadagna con Airbnb o Uber è più un mini-imprenditore di se stesso molto precario che un vero occupato. Lo stesso Kalanick ha sintetizzato bene il proprio ruolo dicendo: «È difficile essere degli imprenditori distruttori senza essere i cattivi».
Quello su Ford, dunque, non è un buon termine di paragone perché l’auto distrusse sì il settore delle carrozze ma diede lavoro a milioni di persone. Oggi siamo di fronte a un cambiamento ancora più profondo di quanto pensiamo e l’Italia, nel ripensare il mondo del lavoro, non può credere di restarne fuori.