la Repubblica, 20 gennaio 2015
Alessandro Baricco stronca "Sottomissione", il nuovo romanzo di Houellebecq che immagina una Francia islamizzata. «È solo il racconto del declino di un docente di mezza età e della civiltà che lo ha prodotto. Ma il personaggio non è memorabile. Un’inutile lezione»
Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura – contraddistinta da un certo dominio tecnico superiore e da un’ardita fedeltà ad antiche, estreme, ambizioni – non sono poi molti gli scrittori che oggi vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq. Per questo, chinarsi su ogni suo libro, anche a costo di uscirne delusi, è un gesto che vale la pena di compiere.
Di rado è un’esperienza piacevole : Houellebecq è un pensatore spinoso, prima che uno scrittore capace, e il disprezzo chirurgico con cui prova a fare a pezzi luoghi comuni a cui dobbiamo una parte significativa della nostra buona coscienza rende la lettura dei suoi libri fastidiosa fino alla ripugnanza. Tuttavia, quasi sempre l’intelligenza è affilatissima, e la scrittura non banale. Alte le ambizioni, coerente il gusto. Ce n’è abbastanza per interessarsi a lui: quanto ad amarlo è una conseguenza possibile almeno quanto lo è il detestarlo.
Sottomissione è il suo ultimo romanzo (edito, in Italia, da Bompiani). Un libro placidamente strano, nato, si direbbe, dalla fusione di tre testi differenti: un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K. Huysmans, uno dei padri del decadentismo tardo-ottocentesco. La fusione non è proprio riuscitissima (si vedono le cuciture, troppo spesso), e la parte più brillante, senza dubbio, è quella saggistica (tutti a rileggere Huysmans, dopo). A tenere insieme il tutto, assicurando alla lettura una certa gratificazione, ci pensa la mano dell’artigiano, cioè l’abilità della scrittura – un tempo si sarebbe detto lo stile. Quando vuole (e qui vuole) Houellebecq ha questa mirabile capacità di esercitare un dominio assoluto, ma pacato, sulla lingua. Senza sforzo apparente esegue numeri di un certo virtuosismo, ma sempre con l’aria di far un gesto naturale, o scontato. Io ad esempio vorrei capire come fa a tenere su certe frasi lunghe senza che nel transito dall’inizio alla fine non si intrometta il bello scrivere letterario o un qualche esibizionismo barocco. Non è semplicissimo suonare la lingua con arcate così ampie senza appesantirsi per strada; non è scontato saperlo fare senza finire per risultare artificiali. Tuttavia a lui riesce, come provo a mostrare in un passo tra i tanti, che scelgo per l’uso esatto del punto e virgola, segno di punteggiatura coltivato ormai da pochi, raffinatissimi, specialisti. «Non avevo mai avuto la minima vocazione per l’insegnamento – e, quindici anni dopo, la mia carriera aveva solo confermato quell’assenza di vocazione iniziale. Qualche lezione privata in cui mi ero impegnato con la speranza di migliorare il mio tenore di vita mi aveva convinto quasi subito di come la trasmissione del sapere fosse nella maggior parte dei casi impossibile; la diversità delle intelligenze, estrema; e che niente potesse sopprimere o anche solo attenuare tale ineguaglianza fondamentale». Preciso, elegante, naturale. Sembra facile, ma non lo è.
Per il piacere del lettore, a una simile perizia stilistica sono consegnate le pagine su Huysmans, più o meno fuse nella trama del racconto. Non diranno molto a chi non conosce minimamente l’autore di A rebours, ma a me hanno fatto ricordare che il miglior libro che ho letto di Houellebecq (dopo Le particelle elementari ) è un saggio: poche pagine memorabili e urticanti su H. P. Lovecraft. Ogni tanto mi accade di rimpiangere il fatto che taluni romanzieri, pur rispettabili, sottovalutino l’eventualità di essere, come potrebbero, grandissimi saggisti. In questo caso mi sono limitato a chiedermi che problema c’era a scrivere un bel saggio su Huysmans e basta. Ma dev’essere anche una questione di riconoscimento, soldi, e frivolezze varie.
Devo anche aggiungere che il nitore rotondo della prosa di Houellebecq perde molto del suo smalto nelle pagine dedicate, più strettamente, alla vicenda fantapolitica. Lì si scivola spesso in una prosa di servizio, del tutto a portata di scrittori appena educati. D’altronde c’è da chiedersi se il contenuto potesse pretendere qualcosa d’altro. Come forse è noto, Houellebecq ipotizza che in Francia prenda il potere (democraticamente) un partito musulmano moderato, trascinando con lenta fermezza il Paese in una conversione collettiva alla way of life dell’Islam: poligamia, antisemitismo, donne velate, addio al laicismo, ecc. Per quanto Houellebecq sia molto abile, e in alcuni tratti perfino geniale, nel ricostruire i passaggi di una simile mutazione, l’assunto resta quello che è, cioè una boutade buona per ravvivare una cena con dei colleghi. Forse mi sfugge qualcosa, ma francamente vendere per verosimile quella Francia lì presume una disponibilità esagerata, quasi infantile, a sottovalutare la complessità della situazione. Non dico la gravità, dico la complessità: tenere almeno conto degli immensi incroci di potere che stanno sullo sfondo della frizione tra Occidente e Islam è il minimo che si dovrebbe pretendere. Così come francamente ridicolo, se posso permettermi, è il riferimento ossessivo alla Francia, come se il resto del pianeta non esistesse: un modo di vedere le cose che poteva avere un senso due secoli fa, ma oggi, onestamente, sa di miopia niente male. Per cui resta la battuta ad effetto, e l’esercizio non sgradevole di pensare l’inverosimile: ma mi resta da capire che bisogno c’era di scomodare la letteratura. Un pamphlet brillante era più che sufficiente.
D’altronde la letteratura è se mai dispensata, in Sottomissione, in quello che sembra essere, al di là degli echi mediatici, il vero nervo centrale del libro e in definitiva la sua ragion d’essere: il racconto dello strisciante declino, grottesco e rancoroso, di un cattedratico di mezza età: un naufrago meticoloso, destinato a confondersi con il naufragio della civiltà che l’ha prodotto. Lì le pagine apprezzabili non mancano, e Houellebecq può dedicarsi ai suoi numeri migliori: la ferocia del disprezzo, la cattiveria dello sguardo, la disponibilità a guardare il male in faccia. Sicuramente, per quello che ne capisco io, l’ha fatto meglio, però, in altri libri. Qui è un po’ tutto già sentito. D’altronde, se la cosa da raccontare è quel che succede a un uomo colto quando il suo corpo e la sua mente registrano la fine dell’età d’oro e il premere di un qualche crepuscolo (in genere odiare tutti e perdere la testa per qualche studentessa), tutto quello che c’è da dire l’ha detto Roth, e il resto l’ha puntualizzato Coetzee: l’hanno anche fatto con tutta l’ironia auspicabile e la ferocia necessaria, in libri che giustificano pienamente, e senza compromessi, la sopravvivenza di un termine come letteratura. Francamente il professore di Houellebecq, con le sue reticenze, la sua viltà lucida, i suoi mesti riti sessuali e la sua intelligenza da salotto, non aggiunge un granché, e difficilmente può assurgere a personaggio memorabile. Lo si accompagna volentieri, perché no, sulla via della sua disfatta poco spettacolare: ma, ecco, non di rado pensando ad altro.