la Repubblica, 20 gennaio 2015
Questa settimana la Bce deve decidere sul Quantitative easing, ma l’ultimo ostacolo per Draghi si chiama Grecia. Il nuovo dilemma: escludere Atene dalle operazioni sui titoli pubblici darebbe a Syriza consensi ancora maggiori alle elezioni di domenica. Ma sulla sua inclusione c’è il veto dei tedeschi (e non solo)
Tra quattro settimane lo sapremo. Sapremo chi era contro, chi voleva prendere tempo, chi ha velatamente minacciato e chi ha detto in Consiglio qualcosa di diverso da ciò che invece fa fuori. Per la prima volta la Banca centrale europea pubblicherà (dopo un mese) i verbali delle sue riunioni e inizierà a farlo da quella che parte domani e finisce giovedì. Non sarà un incontro qualunque: sul tavolo ci sono la storia della Bce, la reputazione del suo presidente Mario Draghi e una pagina forse determinante per il futuro dell’euro.
Questa settimana l’Eurotower deve decidere sul cosiddetto quantitative easing (QE), espressione da addetti ai lavori che per i 330 milioni di cittadini di Eurolandia è semplicemente acquisto di titoli di Stato. La Bce è chiamata a votare sull’ipotesi di comprare almeno 500 miliardi di obbligazioni pubbliche – da quelle dell’Italia all’Estonia, passando per la Germania – con l’obiettivo di immettere liquidità nell’economia e contrastare la lunga scivolata verso la deflazione.
Da ora in poi i verbali verranno resi noti, come fa la Federal Reserve americana. Le frasi pronunciare non verranno attribuite agli autori, solo riportate. Non sarà però difficile indovinarli. Se qualcuno per esempio dice che certe banche greche rischiano di finire senza liquidità, soffocate dalla chiusura simultanea di migliaia di conti, in asfissia finanziaria prima o subito dopo le elezioni di domenica prossima, non sarà difficile capire chi è. Quasi certamente è Yannis Stournaras, governatore di Atene. Non sarebbe un messaggio nuovo. Quando leggeremo quei verbali fra un mese sapremo già com’è andata a finire, per ora però proprio la Grecia si presenta come uno degli ostacoli di Mario Draghi sulla strada degli interventi da decidere tra due giorni.
Le sue opzioni sono limitate. Il presidente della Bce non può includere i titoli di Atene negli acquisti: il rischio è troppo alto. Per il mercato quei bond sono «spazzatura» e Syriza, il partito della sinistra radicale che guida i sondaggi, fa campagna per il ripudio del debito e dei piani di riforme e risanamento chiesti dai governi creditori in Europa; ogni contribuente italiano, fra gli altri, è esposto su Atene in media per circa 800 euro. Draghi però non può neppure dire che comprerà i bond greci solo a patto che il futuro governo di Atene accetti il programma imposto dal resto d’Europa in cambio dei prestiti. Se lo facesse, gli elettori greci si sentirebbero sotto ricatto e potrebbero reagire premiando ancora di più Syriza, il partito che rifiuta la troika Bce-Ue-Fmi e il debito. E anche nell’ipotesi che Draghi rinvii laconicamente ogni scelta sulla Grecia, Alexis Tsipras potrebbe accusarlo (in modo strumentale) di pressioni indebite sugli elettori. Qualunque strada prenda, il presidente della Bce rischia di essere adoperato ai suoi fini dal leader di Syriza.
Non è solo un problema politico. Se la corsa al ritiro dei risparmi continua, alcune banche greche potrebbero trovarsi in ginocchio prima che il nuovo governo di Atene entri in funzione. Senza impegni precisi, la Bce non darebbe loro liquidità e in Germania, anche fra i moderati, l’apertura ai compromessi con i greci è ormai vicina a zero. Berlino non vuole premiare la linea di Syriza, perché teme che diventi un modello anche per Podemos (il partito-gemello che guida i sondaggi in Spagna) o per qualcuno in Italia. Per questo non è escluso che, senza che nessuno l’abbia mai deciso, Atene nelle prossime settimane scivoli nel caos finanziario.
Ma la Grecia è solo uno dei motivi per i quali Draghi ormai è a corto di soluzioni giuste. A questo punto, un anno e tre mesi dopo che l’inflazione ha iniziato a crollare, il banchiere centrale ha davanti a sé solo opzioni più o meno cariche di effetti indesiderati. Angela Merkel per esempio non ha dato il suo assenso perché la Bce compri quei 500 o più miliardi di titoli e li metta sul proprio bilancio, come sarebbe normale: eventuali perdite da insolvenza dell’Italia o di altri, secondo i tedeschi, ricadrebbero in parte su Berlino. «C’è un timore in Germania che quegli acquisti siano un trasferimento di rischio dall’Europa del Sud al contribuente tedesco», dice Marcel Fratzscher, presidente dell’istituto Diw di Berlino e consigliere del ministro dell’Economia Sigmar Gabriel. «Penso che quella preoccupazione sia infondata», aggiunge Fratzscher. «Ma la Bce deve avere il rispetto del pubblico e dei politici per poter operare».
Proprio per ottenere questo rispetto in Germania, Draghi ha pensato a lungo di relegare a ciascuna banca centrale nazionale responsabilità per i titoli del proprio Paese in caso di default. Fratzscher, da Berlino, non crede che possa funzionare: «Sarebbe la rinazionalizzazione della politica monetaria e la fine dell’unione monetaria stessa», dice. «Non può essere nell’interesse della Bce». Di qui l’idea in extremis di suddividere il rischio metà sul bilancio comune della Bce, metà su quello degli istituti nazionali. «Mi pare probabile – commenta Fratzscher – ma sarebbe tutt’altro che ottimale e meno efficace. Ridurrebbe le possibilità che questa iniziativa funzioni, migliori le aspettative sui prezzi e riduca gli spread».
A Draghi dunque tocca una mano di carte quasi impossibili. Ha ormai così poco da perdere, che potrebbe anche decidere di giocarle fino in fondo: sfidando la Germania, con il plauso del resto del mondo, per lanciare gli interventi nel solo modo che garantisce il futuro dell’euro: quello più normale.