Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 20 Martedì calendario

Lo Yemen è ripiombato nel caos. La ribellione degli sciiti, la battaglia nelle strade della capitale Sanaa, gli spari contro l’auto del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi. Una crisi che dovrebbe preoccupare molto l’Occidente

Yemen di nuovo nel caos. Ieri la capitale Sanaa ha vissuto momenti di guerriglia urbana: il palazzo presidenziale colpito a cannonate, lo stesso convoglio di auto del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi preso di mira dai cecchini, strade vuote, combattimenti nei quartieri dove risiedono i capi militari e i membri del governo, spari presso l’abitazione del ministro della Difesa. Fonti mediche sul posto confermano almeno 9 morti e una quarantina di feriti. Con le prime ombre della sera è stato imposto un fragile cessate il fuoco, restano spari isolati. L’impressione è che i combattimenti possano riprendere da un momento all’altro: in serata, i ribelli hanno circondato il palazzo del premier yemenita, Khaled Bahah, mentre quest’ultimo si trovava nella residenza.
Così torna sotto l’occhio dei riflettori un Paese che in genere viene poco seguito dai media occidentali. Le violenze nella regione tutto attorno sono ultimamente di tale gravità che il pur destabilizzato Yemen passa in secondo piano. Tuttavia, proprio di Yemen si è tornati a parlare dopo l’attacco del 7 gennaio contro il periodico satirico parigino Charlie Hebdo, quando emerse che gli attentatori potessero essere legati alla cellula yemenita di Al Qaeda. E, adesso, i combattimenti di Sanaa ripropongono l’attualità del contenzioso religioso, ma anche militare, tra sciiti e sunniti, che dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003 lacera il mondo islamico con rinnovata virulenza e vede al suo cuore il braccio di ferro tra Iran e Arabia Saudita.
L’origine delle tensioni risale infatti al 2004, quando la tribù degli Houthi, una setta residente nelle province settentrionali di sciiti cosiddetti Zaidi (che per usanze e credenze sono prossimi ai sunniti), cominciarono una ribellione armata contro il regime dell’allora presidente Ali Abdullah Saleh (egli stesso di credo Zaidi). I ribelli accusavano il regime di essere corrotto, legato ai sauditi e troppo filoamericano. In pochi anni lo scontro si è allargato. Sanaa accusò l’Iran di fomentare i rivoltosi sciiti e trovò aiuto a Riad. Del caos approfittarono le cellule locali di qaedisti, puristi sunniti, pronti persino a lottare a fianco degli sciiti pur di eliminare il governo centrale. Tutto ciò spinse gli americani a compiere alcuni raid mirati contro i qaedisti dopo il 2009. Ma con scarso effetto. L’onda lunga della «primavera araba» raggiunse anche Sanaa nel 2011, tanto che un anno dopo Saleh fu costretto alle dimissioni. Ciò è però servito a poco, da allora le forze governative hanno progressivamente perso terreno. Tanto che nel settembre scorso le colonne militari Houthi sono arrivate a Sanaa. La promessa di una nuova Costituzione e maggior potere ai ribelli non è servita. Nel solo 2014 i morti negli scontri sono stati oltre 7.000.
Ormai i giorni del presidente Mansour sembrano contati. Una settimana fa il suo capo di gabinetto e braccio destro, Ahmed Awad bin Mubarak, è stato rapito nel cuore della capitale. «Siamo vittime di un vero colpo di Stato», ha dichiarato ieri la portavoce del presidente, Nadia al Saqqaf. Il regolamento dei conti pare alle sue battute finali.