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 2015  gennaio 19 Lunedì calendario

Si difende Nabil Al Muredden, il chirurgo siriano in pensione residente vicino a Bologna, intercettato al telefono con Greta e Vanessa e finito nella informativa dei Ros come possibile reclutatore: «Non ci sto ad essere marchiato come integralista e affermare certe cose da frammenti di intercettazioni è scorretto. Sono un cittadino italiano. Le due ragazze non mi chiesero nessun aggancio in patria. I contatti li avevano già»

Il suo nome insieme ad altri siriani residenti vicino a Bologna era finito in una relazione del Ros dei carabinieri. Anche a lui si era rivolto Greta Ramelli mentre stava preparando insieme a Vanessa Marzullo la missione umanitaria in Siria finita con un sequestro durato quasi sei mesi. Da un paio di telefonate intercettate si capisce che le due ragazze «volevano offrire supporto al Free Sirian Army» e che erano pronte a distribuire kit di primo soccorso ai guerriglieri anti Assad e oggi pure anti Isis.
Ma Nabil Al Muredden, il chirurgo siriano in pensione residente a Budrio vicino a Bologna e finito nella informativa dei Ros, non vuole passare per un terrorista: «Non ci sto ad essere marchiato come integralista e affermare certe cose da frammenti di intercettazioni è scorretto». Né vuole essere sospettato di contatti con i sequestratori delle due ragazze: «Sono in Italia da 55 anni e ho la cittadinanza italiana. Se qualcuno chiede di aiutarlo a favore del popolo siriano siamo disponibili, fare altro no».
Nel loro entusiasmo o nella loro ingenuità, Greta e Vanessa prima di partire per Damasco batterono a tappeto ogni possibile contatto con i siriani residenti in Italia. Avvicinarono pure Mohammed Yasser Nayeb, pizzaiolo in Emilia e ai vertici dell’associazione dei siriani. Anche lui nega qualsiasi retroscena: «Ci chiamano tanti volontari per chiedere consigli, aiuti e partecipazione ai loro progetti».
Alla fine il pizzaiolo le autorizzò ad usare il logo dell’associazione dei siriani residenti in Emilia ma non fece altro: «Non mi chiesero nessun aggancio in patria. I contatti li avevano già, non li chiesero a noi. Mi hanno detto che sapevano tutto quello che dovevano fare in Siria, punto per punto. Non abbiamo fatto altro, noi condanniamo ogni forma di violenza e di estremismo e non metterei mai a rischio la vita di un italiano perché questa oramai è la mia prima patria».
Malgrado l’informativa dei Ros e queste ultime rivelazioni la procura di Bologna smentisce di aver aperto un’inchiesta. Se le due ragazze possono aver peccato di ingenuità ad andare in Siria in quel modo, per ora sembrano solo speculazioni politiche le altre illazioni sul loro comportamento e sulla finalità della loro missione umanitaria.
Vanessa Marzullo, da Verdello vicino a Bergamo dove si trova da meno di due giorni dopo quasi sei mesi di prigionia, si presenta davanti alle telecamere con il capo cosparso di cenere: «Scusateci, ci dispiace per il dolore che abbiamo causato ma non siamo responsabili del nostro rapimento». Nè di quello nè dei 12 milioni di dollari che sarebbero stati pagati per il loro rilascio, circostanza pure negata dal governo italiano.
Vanessa ricostruisce quei mesi e si capisce che non è stata una passeggiata: «Siamo state chiuse in vari rifugi. Siamo state minacciate di morte anche se non abbiamo subito violenze. La paura di non farcela c’era. Ma per questo ci siamo supportate a vicenda tenendoci per mano». Di tornare in Siria per ora non se ne parla, ma al loro impegno non vogliono rinunciare: «Non ci arrendiamo, continueremo a batterci da qui».