il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2015
Qui Birmania. Quei buddisti fanatici che uccidono i musulmani. Ashin Wirathu è diventato una sorta di rock star con migliaia di follower su Twitter e centinaia di migliaia di devoti. Ma per molti fomenta l’odio
Il mondo si è abituato a un’immagine dolce e mite del buddismo. Le parole sagge che invitano alla tolleranza pronunciate dal Dalai Lama, i suoi gesti pacati, il suo sorriso risuonano dentro di noi ogni volta che pronunciamo la parola “buddismo”. Che non è una religione per come la intendiamo, cioè non vi è un Dio esterno al quale rivolgersi, da supplicare, ma lo è nel senso etimologico del termine – dal latino religo – ovvero riunirsi sotto lo stesso culto. Nel buddismo l’esistenza di un Dio fuori da noi non è prevista, ma ognuno di noi possiede la cosiddetta buddità. Il problema è illuminarla, permetterle di manifestarsi. È il mistico, il divino che ogni essere umano ha in sé.
Ma la buddità che emerge dal monaco buddista birmano Ashin Wirathu, diventato una sorta di rock star con migliaia di followers su Twitter e centinaia di migliaia di devoti che arrivano da tutte le parti del paese per assistere ai suoi lunghissimi sermoni in un tempio di Mandalay, non è fondata sulla tolleranza, sull’immedesimazione nel prossimo come si pensa debba essere quella “allenata” di un addetto a questo culto.
Lui, alzando un lembo della tonaca arancione che avvolge il corpo nudo e glabro, risponde con tono risoluto e senza l’ombra di un sorriso a coloro che lo accusano di fomentare l’odio sociale: «Si può essere pieno di bontà e di amore, ma non si può dormire accanto a un cane pazzo». Il cane pazzo è il musulmano, chi si professa devoto ad Allah, indipendentemente dal fatto che sia osservante, indipendentemente che sia un semplice fedele o un integralista islamico o, peggio, un terrorista islamico. Le sue prediche, che secondo le Organizzazioni non governative e la stampa internazionale incitano all’odio e alla violenza nei confronti dei musulmani che vivono nel Paese, compresi i Rohingya, un gruppo di circa un milione di musulmani apolidi migrati dal Bangladesh, sono diventate sempre più rabbiose negli ultimi due anni. Una delle ragioni è la crescita, seppure molto contenuta dei musulmani in termini demografici, l’altra è l’abdicazione della giunta militare a favore di una “democratura” che avrebbe potuto riconoscere nuovi diritti. Secondo i nazionalisti birmani, compreso il movimento nazional-buddista “696” fondato da Wirathu, i musulmani, tutti, in blocco, dovrebbero essere cacciati dalla Birmania. Da due anni però Wirathu non solo si oppone alla diffusione dell’islam nel suo paese multietnico ma non multireligioso, dato che quasi il 90% della popolazione è di fede buddista, ma fomenta la violenza contro i musulmani. L’anno scorso il viso tondo con la testa rasata di Wirathu si è persino guadagnato la copertina di Time e il titolo: “Il volto buddista del terrore”.
I suoi discorsi che durano interi pomeriggi sono preceduti da un rito di espiazione per le azioni tracotanti commesse poi, sempre più frequentemente iniziano con questa frase: “Io li definisco degli attaccabrighe, dei facinorosi, perché sono facinorosi” ( i musulmai, ndr) e finiscono così: “Sono orgoglioso di essere chiamato un buddista radicale”. Non deve procacciarsi il cibo Wirathu, per lui lo hanno già fatto i giovani monaci che, scalzi e in fila, ogni mattina vanno a raccogliere le offerte. Da qualche tempo però i cittadini più facoltosi che apprezzano la sua “crociata” devolvono ingenti somme al suo movimento. Non godono della stessa generosità i musulmani che vivono nella periferia di Mandalay, la seconda città del paese, ma soprattutto i Rohingya che languono senza lavoro e cibo in remoti campi profughi, che in realtà non sono altro che distese di stracci e teli di plastica dell’Onu a forma di tende. Tante anche in riva al mare, Perché loro vengono dal mare, sono abituati a stare in mare più che in terra dove non sembrano essere i benvenuti. L’anno scorso i sermoni del quarantottenne Wirathu hanno iniziato a tradirsi in azioni. Anzi in scontri violenti. Birmani nazionalisti seguaci di Wirathu hanno incendiato le case dei musulmani, brandito machete e coltelli. I linciaggi buddisti hanno ucciso più di 200 musulmani e costretto più di 150.000 a fuggire dalle loro case.
Quello che era iniziato due anni fa ai margini della società birmana è cresciuto fino a diventare un movimento nazionale la cui agenda include ora anche il boicottaggio di prodotti realizzati da musulmani. Dentro e fuori la Birmania. I monasteri buddisti associati al movimento “696” hanno aperto anche centri comunitari per 60.000 bambini buddisti.
L’odio sparso a piene parole da Wirathu ha iniziato a infastidire i cittadini dei paesi islamici confinanti e vicini, innescando una spirale di violenza che finora non è ancora diventata eclatante ai nostri occhi distanti. Nel mese di maggio del 2013, le autorità indonesiane avrebbero sventato quello che è stato definito un complotto per bombardare l’ambasciata birmana a Jakarta in rappresaglia per gli attacchi contro i musulmani. Oggi Wirathu fa comodo alle autorità birmane che lo definiscono un patriota ma c’è stato un tempo in cui le stesse autorità, che ancora vestivano la divisa, lo arrestarono e tennero in carcere per ben otto anni per incitamento all’odio. Nel 2011 venne scarcerato. In un recente discorso, ha descritto il massacro di studenti e abitanti musulmani della città di Meiktila come una dimostrazione di forza: “Se siamo deboli la nostra terra diventerà islamica”. Eppure il Buddismo sembra avere un posto sicuro in Myanmar. Nove persone su 10 sono buddisti, come lo sono quasi tutti gli uomini d’affari più richi, il governo, l’esercito e la polizia. Le stime della minoranza musulmana vanno dal 4 all’ 8 per cento su circa 55 milioni di birmani.
Ma Ashin Wirathu, dice il buddismo è sotto assedio da parte dei musulmani che stanno avendo più figli dei buddisti e stanno comprando terreni. In realtà attinge a rancori storici che risalgono all’epoca del colonialismo britannico in cui gli indiani, molti dei quali musulmani, vennero mandati in Birmania come funzionari e soldati.
Il Dalai Lama, dopo i disordini di marzo dell’anno scorso, ha detto che l’uccisione in nome della religione è “impensabile” e ha esortato i buddisti del Myanmar a contemplare il volto del Buddha per orientarsi e non quello di Wirathu.
Phra Paisal Visalo, studioso e monaco buddista cittadino della vicina Thailandia, spiega che il concetto di “noi e loro”, promosso dai monaci radicali del movimento birmano, come un’eresia per il buddismo. Per tutte le correnti buddiste. Ma ha lamentato che la sua critica e quella di altri leader buddisti di fuori del paese hanno avuto “un impatto minimo. “Wirathu invece ha iniziato a far proseliti anche all’estero. Soprattutto in Sri Lanka, altro paese storicamente tormentato da conflitti etnici. Anche nella “pacificata” isola sotto la punta meridionale dell’India, per anni dilaniata da una guerra civile tra gli induisti dell’etnia minoritaria Tamil e la maggioranza buddista, i monaci che sostengono il partito nazional-buddista – appena dimessosi dalla coalizione di governo perché è stata rifiutata la loro proposta di inserire nella Costituzione un articolo che consacra il Buddismo a religione di Stato – hanno stretto un’alleanza con il movimento “696” e Wirathu è stato accolto nell’isola come un vero e proprio leader politico. Anche nella solare costa occidentale dello Sri Lanka ci sono stati di recente scontri tra i buddisti-nazionalisti e i cittadini musulani, anche lì esigua minoranza come i cristiani, anch’essi presi di mira. Il partito nazionalista e i monaci non hanno gradito per nulla la recente visita di Papa Francesco e hanno fatto di tutto per boicottarla.
Tra i più contrariati dagli episodi di violenza e dalla retorica di Wirathu, ci sono alcuni dei leader della Rivoluzione zafferano del 2007, una rivolta pacifica guidata dai monaci buddisti contro il regime militare birmano. I seguaci del Buddismo non appartengono tutti alla stessa scuola. “Non ci aspettavamo questa violenza quando abbiamo cantato per la pace e la riconciliazione nel 2007”, ha detto il lama del monastero di Pauk Jadi, Ashin Nyana Nika durante una riunione sponsorizzato da gruppi musulmani per discutere la questione. (Ashin è il titolo onorifico per i monaci birmani). Ashin Sanda Wara, il capo di una scuola monastica a Yangoon, dice che i monaci del paese sono divisi quasi equamente tra moderati ed estremisti. La colonna sonora del movimento di Ashin Wirathu ha come protagonisti “quelli che vivono nel nostro paese, bevono la nostra acqua e invece di ringraziarci si dimostrano”.
Il ritornello promette: “Costruiremo un recinto con le nostre ossa, se necessario,” corre ritornello della canzone.