la Repubblica, 19 gennaio 2015
L’autostrada della jihad. Cento euro per un volo low cost per Istanbul, 25 per un passaggio in Siria: ecco come mille foreign fighters europei raggiungono ogni mese il Califfato senza nessun controllo. E se vengono dall’area Schengen non hanno neanche bisogno del visto
L’autostrada della jihad finisce qui. Nell’ultimo lembo di terra della provincia meridionale di Hatay. Appena dopo l’ennesimo scollinamento dei quaranta chilometri di statale che uniscono Antiochia a Yayladagi. Il vecchio Mercedes bianco con targa siriana infila una sterrata che picchia ripida sul fianco della collina. Accosta in una rada di fango e neve marcia. Hammad, siriano di Latakia, un volto scavato che dimostra molti più anni dei suoi 37, spegne il motore. Fa cenno di non fare rumore. Quindi, punta dritto il braccio indicando delle vicine catapecchie, alle spalle del minareto di questo villaggio di montagna. In una foschia gelida, cinque sagome intabarrate e cariche di zaini corrono verso il sentiero che entra nel bosco. «Foreign fighters», dice Hammad. Tra loro e la Siria ci sono poco più di seicento metri. Il confine tra la Terra degli Infedeli e la Gloria di Allah è una radura attraversata da una rete di metallo bucata cui fa da pilastro una torre di osservazione abbandonata verde pastello. Hammad osserva i cinque. Ripete sottovoce le istruzioni che ha dato ai cento, ai mille – neanche lo ricorda più – che grazie a lui sono passati da qui. «Ora», dice. «Ora». La corsa dei cinque si fa a perdifiato, mentre alle loro spalle altre sagome nere si sono messe a inseguire. «La polizia turca», sorride Hammad. Sa che non li prenderanno più ormai. La recinzione viene saltata. I cinque mujaheddin sono nella terra promessa. Crollano in ginocchio. Pregano. Hammad solleva il capo verso l’alto nel gesto della preghiera. «Che Dio li protegga».
Se hanno ragione le intelligence europee e il Dipartimento di Stato americano, ogni mese, mille nuovi foreign fighters compiono quest’ultimo passo. Diciottomila sono già di là. Cinquemila hanno il passaporto dell’Unione europea. Li riconosci. Nel bazar di Antiochia, dove a tradirli «non è l’accento arabo – scherza Hammad che ne indica alcuni seduti ai tavoli di un kebab mentre trafficano con i loro smartphone Samsung – ma il look da rapper. Perché di rapper ad Antiochia non ce ne sono...». O nel luminoso terminal dell’aeroporto di vetro, acciaio e marmi di Hatay, dove hanno tutti lo stesso appuntamento con gli stessi driver che li aspettano all’esterno, accanto a un’ordinata colonna di pulmini, come nei viaggi organizzati. E dove il plin-plon che annuncia gli arrivi e le partenze è un’enunciazione quotidiana degli affluenti della jihad. Arabia Saudita, Nord Africa, e, appunto, Europa Occidentale via Istanbul.
Già, tra il colonnato di San Pietro e le bandiere nere del Califfato ci sono quattro ore di volo con scalo e una di auto. Nessun visto per i cittadini dell’area Schengen, se non il timbro distratto di un doganiere turco che suppone il viaggiatore un “turista”. Non a caso la chiamano la Jihad Highway, l’Autostrada della jihad. E per altro dal pedaggio a buon mercato. Un centinaio di euro per un low cost, e cinquanta lire turche – 25 dollari, 20 euro – per il passaggio in Siria. Talvolta il giorno stesso dell’arrivo. O comunque nell’arco delle ventiquattro, quarantotto ore. Durante le quali si resta in attesa in qualche safe-house o, per chi ha soldi da spendere, negli alberghi di Antiochia. «Dipende dal tempo e dai turni di guardia lungo il confine – spiega Hammad – Notte o giorno, in questo punto di montagna non fa differenza. L’importante è osservare attentamente il momento del cambio. Attraversare è questione di minuti». «Qui a Govegi – prosegue – di foreign fighters ne passano una media di quindici, venti alla settimana». Ad aspettarli dall’altra parte, «i fratelli del Free Syrian Army», l’Esercito Libero Siriano. È la rotta che porta alla martoriata Aleppo e che hanno fatto Greta e Vanessa. Che percorrono, insieme ai foreign fighters, giornalisti e attivisti dell’ong. Hammad ha con sé una foto. È un uomo dalla carnagione bianchissima e gli occhi chiari, sulla cinquantina. Sorride, sullo sfondo di un paesaggio che suona familiare. «È la Francia. Perché lui era francese. Musulmano. Ma francese di genitori francesi. E con lui eravamo diventati amici. L’ho portato io di là». L’imperfetto tradisce una vita o un’amicizia che non ci sono più. «Lo hanno ucciso in combattimento lungo la linea del fronte di Durin, sulle montagne di casa mia. Ricordo l’ultima sera che abbiamo passato insieme. Eravamo arrivati in Siria. Gli chiesi perché lo faceva. Era un uomo benestante. Aveva ottime ragioni per non scegliere la jihad. Mi disse che non era per il Profeta. Ma per quello che aveva visto in televisione. Il massacro di innocenti sotto il fuoco dei carri armati e dell’aviazione di Assad. Non hanno mai trovato il corpo. Ogni tanto sento al telefono il figlio, che vive in Francia».
Govegi è solo un punto su una linea di confine che Siria e Turchia condividono verso nord-est per 909 chilometri. E Hammad è solo uno dei centinaia di spalloni della Jihad. «Se hai tempo – dice – vai verso nord. Ho un amico a Kilis». I 270 chilometri di strada sono deserti. Il traffico è rado come la vegetazione, i posti di blocco e i blindati dell’esercito turco, che danno l’impressione disarmata e insieme svogliata di chi è chiamato a chiudere il collasso di un’immensa diga con le mani. Un colino per setacciare quello che porta a valle la piena. Tra il 2011 e oggi, dei 13 valichi di frontiera ufficiali con la Siria, il Governo di Ankara ne ha lasciati aperti solo 3. Cilvegozu e Reyhanli, a sud, nella provincia di Hatay, e Oncupinar, alle porte di Kilis, provincia di Gaziantep, città non lontana dall’altro aeroporto (Gaziantep) che, con Hatay, si contende il traffico dei passeggeri mujaheddin. Alla frustrazione e al malumore dell’Europa e degli Stati Uniti, Ankara ha opposto numeri secondo cui, negli ultimi tre anni, i respingimenti alla frontiera con la Siria sono stati 92 mila e 4 mila gli arresti. Ha mostrato al mondo le foto dei jersey di cemento armato e delle trincee scavate alle porte di Reyhanli. Ma l’uomo stretto in un capotto di pelle nera che attende nel buio pesto della sera a un angolo di strada alla periferia di Kilis racconta dell’altro.
Si chiama Abu Abdo. Ma meglio sarebbe dire che così si fa chiamare. Ha 24 anni ed è nato ad Aleppo, dove ha combattuto per tre anni con l’Esercito Libero Siriano. «Sono uno degli eroi della battaglia per la conquista dell’aeroporto militare siriano di Mnagy», dice di sé. Ha smesso di fare la guerra. O, meglio, ha deciso di proseguirla in altro modo. Dall’imbocco di un uliveto, poco fuori dalla città. A neanche un chilometro dalle luci alogene che segnalano il passaggio di confine ufficiale tra Siria e Turchia. Invita a seguirlo a piedi, affondando le scarpe in una rotaia di fango scavata da pneumatici di motocicletta e pickup. Due, trecento metri. Fino al punto in cui si vede la rete di confine tagliata dalle cesoie. «Arrivati», dice. «Ecco la Siria. Facile». Un sorriso che si spegne con un avvertimento. «L’unica cosa importante è non mettere i piedi fuori dalla rotaia. Ci sono le mine».
Sostiene Abu Abdo che in tre anni ne ha portati di là mille. «Si, mille foreign fighters. In gruppi di tre, massimo quindici, per viaggio. Francesi, austriaci, inglesi, ceceni. Attraversiamo due, tre volte alla settimana. Sempre di notte». E sostiene che lui e i suoi non chiedono denaro. «Sono musulmano. E per me i mujaheddin sono sacri. Non devono pagare per mangiare, dormire e venire di là con me». Dove ad aspettarli sono i padroni della Siria settentrionale, gli uomini dell’Is e, talvolta, i qaedisti di Al Nusra. Il lampeggiante di una macchina della polizia non lontana consiglia ad Abu Abdo di lasciare l’uliveto e proseguire la conversazione in un caffè dove altri fratelli della sua “organizzazione” di spalloni si ritrovano di solito. «Abbiamo cominciato in ottanta, lungo i due lati del confine – dice di fronte a un tè bollente – Undici sono morti. Trentaquattro si sono uniti negli ultimi mesi all’Is». Chiede un narghilè e invita ad assaggiare il riz be haleet, il budino di latte, riso e cannella di cui ogni siriano va pazzo. «Non è vero – prosegue – che tutti quelli che attraversano vanno per la Jihad. Direi uno su due. Gli altri sono disperati che preferiscono morire in guerra con un Ak47 in mano, piuttosto che di fame nelle vostre città o nelle vostre galere». Suona come la propaganda nera del Califfatto. «No – dice – Non lo è. Il tempo e Dio diranno se le parole dell’Is sono quelle della verità o della menzogna. Se mentono, Dio li punirà. Viceversa, il Califfato conquisterà il mondo». Diciamo che intanto fa strage a Parigi. Abu Abdo ha una lunga pausa di silenzio. Affonda il cucchiaino nel budino di riso. «Hanno fatto bene a uccidere quei giornalisti che hanno offeso il Profeta. Mentre hanno sbagliato a uccidere nel supermercato. Erano innocenti e non importa che fossero ebrei». Il cellulare squilla. «Ora devo andare. I fratelli hanno bisogno di me».