il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2015
Dopo le stragi di Parigi, in Italia è stato chiesto a dirigenti e ufficiali delle forze dell’ordine di tenere tutti gli uomini sempre pronti. Ecco cosa accadrebbe in caso di attacco terroristico nel nostro Paese
Che i nervi siano tesi lo si percepisce dalla rapidità della risposta: “Non ci sono allarmi specifici, ma noi siamo pronti a qualunque evenienza”. Inutile dire che dopo le stragi di Parigi e le nuove (in realtà continue) minacce al nostro Paese, il livello di allerta si è alzato parecchio. Su disposizione del ministro Angelino Alfano, il capo della Polizia, Alessandro Pansa, ha diramato nei giorni scorsi una serie di circolari a Questure e Prefetture sulla prevenzione di possibili attentati. È stato chiesto ai dirigenti (come agli ufficiali) di tenere pronti tutti gli uomini a disposizione e addirittura a chi aveva riposto la pistola nella cassaforte di casa è stato chiesto di rimetterla nella fondina. Il controllo del territorio si è fatto più capillare, soprattutto in prossimità degli obiettivi sensibili: palazzi delle istituzioni (già parecchio blindati, a dire il vero), ambasciate, luoghi di culto e redazioni di giornali. In particolare, il titolare del Viminale ha chiesto ai direttori delle principali testate di dotare le sedi di metal detector e porte blindate, e magari di un sistema di videosorveglianza collegato direttamente con le centrali operative di polizia e carabinieri. Il Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha chiesto l’invio di 500 uomini in più.
Un protocollo per ogni tipo di attacco
Sono stati aggiornati di recente, inoltre, i protocolli riservati di intervento per le emergenze nazionali: si tratta di piani – redatti a livello provinciale e interprovinciale – che contengono le modalità operative in funzione dei diversi allarmi. Non solo terrorismo, naturalmente: i protocolli servono anche nel caso, per esempio, di incidenti nelle centrali nucleari. Sono “normali” procedure e, proprio per esigenze di sicurezza – magari evitare di far sapere ai terroristi come ci si comporterebbe in caso di... –, sono documenti assolutamente riservati. Rappresentano una base di intervento, non regole prestabilite e capillari cui attenersi. Perchè una cosa è certa: nel caso di un attentato molto è affidato all’esperienza, all’intelligenza e alla fermezza della catena di comando chiamata a intervenire. È facile condannare quanto accaduto in Francia – i buchi nell’attività di prevenzione, l’auto della polizia che, lasciata sola, indietreggia davanti ai terroristi, l’intera gestione dei quattro giorni di Parigi – più difficile è trovarsi a coordinare in prima persona una situazione simile. Non dimentichiamoci le polemiche, poco prima di Natale, sulla visita di Alì Agca sulla tomba di papa Giovanni Paolo II e su chi avrebbe dovuto individuarlo prima e non l’ha fatto (così come, una volta fermato, l’ha messo su un aereo ed espulso, senza avergli fatto uno straccio di domanda, ma questa è un’altra storia). E allora, pur nella tranquillità di sapere che “non ci sono allarmi specifici” – come continua a ripetere Alfano e non solo lui –, cerchiamo di capire cosa accadrebbe in caso di attentato. Su chi potremmo contare, a chi potremmo rivolgerci, chi potrebbe – si spera – salvarci. Restiamo allora a San Pietro, non soltanto per Alì Agca: il colonnato più famoso del mondo è stato più volte citato quale scenario ideale per colpire la cristianità e, soprattutto, mietere molte vittime. Un Ground Zero orizzontale. Una cosa va specificata prima di cominciare: i possibili interventi delle forze di sicurezza dipendono dal tipo di attentato compiuto: ogni attacco ha la sua risposta, ogni risposta prevede l’intervento di squadre o di gruppi speciali diversi.
Presa di ostaggi
L’avvio di ogni operazione dipende dalla sala operativa della questura o del comando provinciale dei carabinieri. Dipende dal numero che viene composto dal cittadino che chiede aiuto. Di solito, cortesia istituzionale vuole che il primo a ricevere la telefonata sia anche il primo a portarsi sul posto e colui che gestisce la situazione e, in un secondo momento, coordina le indagini. Se viene chiamato il 113 interviene la polizia (il 112 per i carabinieri). La chiamata viene immediatamente trasferita al dirigente della sala operativa che ha il compito di decidere il da farsi. Immediatamente vengono mandate (in piazza San Pietro, nel nostro caso) una o più pattuglie in supporto. La piazza, infatti, pur rientrando nello Stato Vaticano, è presidiata dalle forze dell’ordine italiane: nel caso della polizia le pattuglie dipendono dall’Ispettorato Vaticano. Sono gli stessi uomini che prendono in carico il papa nel caso di una sua visita “oltre confine”. Diversa è la sicurezza all’interno della basilica, dove a intervenire sono Gendarmeria e guardie svizzere. Ma torniamo sul sagrato. Se nella telefonata viene comunicata la presenza di ostaggi, il dirigente della sala operativa allerta subito il dirigente del Nocs, il Nucleo operativo centrale di sicurezza (o del Gis, Gruppo intervento speciale dell’Arma), che invia una o più squadre. Si tratta degli uomini che risolvono i sequestri con interventi – di solito – lampo. Prima si riesce a operare, meglio è per l’esito del sequestro. Nel frattempo, però, sotto il colonnato del Bernini arriva anche la Digos con uno dei suoi funzionari. La trattativa col sequestratore è fondamentale. Con un po’ di esperienza,, a capire se ci sia un margine per far terminare il tutto senza (eccessivo) spargimento di sangue. Il Nocs o il Gis – le teste di cuoio, per intenderci – intervengono nel momento in cui la trattativa va troppo per le lunghe, si coglie un momento di debolezza dell’attentatore – Coulibaly asserragliato nel supermercato Kosher che, dopo aver parlato al telefono con una televisione, inizia a pregare, lasciando il ricevitore aperto – o si intuisce che non ci sono prospettive positive. Più è rapido l’intervento, maggiore è la speranza di salvare gli ostaggi.
Kamikaze (con o senza ostaggi)
Se l’attentatore ha con sé (o dice di avere con sé) dell’esplosivo, la sala operativa allerta per primi i nuclei anti sabotaggio. Sono loro ad avere la precedenza su tutto e dal loro dirigente dipende l’intervento di tutti gli altri corpi speciali. A Roma ci sono pattuglie sufficienti a raggiungere in pochissimi minuti qualsiasi luogo della città, figuriamoci San Pietro. Su ogni quadrante della Capitale arrivano a esserci fino a tre squadre di intervento. Pronte a mettersi in macchina e partire, con equipaggiamento al seguito.
Non a caso, insieme con le Digos di tutte le questure italiane, sono tra quelli maggiormente impegnati in questo periodo nell’attività di prevenzione: pacco o ispezionato.
In Vaticano arriverebbe la prima squadra disponibile sul territorio, poi le altre – anche a seconda del tipo di intervento da fare. Non esiste un protocollo da seguire nel caso di un kamikaze – anche perchè, per fortuna, non è una situazione all’ordine del giorno –, esistono l’esperienza (in generale) e le idee. In pochi minuti bisogna capire quale sia il tipo di esplosivo e cercare di trattare, considerando – però – che magari il kamikaze è radiocomandato a distanza (come le bambine nigeriane di Boko Haram) per cui ogni trattativa potrebbe rivelarsi inutile.
Gli artificieri sono dotati di una tuta speciale e di coperte antiesplosivo, le stesse che possono essere utilizzate nel caso in cui si decida di tentare di immobilizzare l’attentatore. Un gesto eroico o stupido, a seconda dei punti di vista, che potrebbe salvare la vita agli eventuali ostaggi. Si capisce a questo punto perchè tutti gli altri corpi speciali dipendano dagli artificieri.
Allarme bomba
Anche in questo caso intervengono le squadre anti sabotaggio. La preparazione è ugualmente elevata, ma il modus operandi varia leggermente tra polizia e carabinieri, laddove questi ultimi – negli interventi di routine, non certo in situazioni di emergenza – sono più propensi a far brillare l’ordigno senza cercare di disinnescarlo. Gli allarmi bomba sono all’ordine del giorno (nella Capitale come nel resto del mondo), non tutti finiscono necessariamente sui giornali. In molti casi si tratta di falsi o di ordigni che vengono disinnescati senza che la popolazione se ne accorga. Se l’allarme dovesse scattare all’interno della basilica, si è detto, la gestione dell’intervento dipende dalla Gendarmeria vaticana.
Diverso è il caso, naturalmente, di una bomba che esploda davvero a San Pietro, dove sono presenti i metal detector ma dove non è difficile arrivare a piedi con zaini e borsoni. I controlli sulla piazza vengono effettuati quotidianamente e i metal detector rallentano l’ingresso in chiesa, ma tra migliaia di turisti si può sempre passare inosservati (del resto militarizzare la piazza, al momento, non sembra necessario). Nel caso dovesse esplodere un ordigno, però, la priorità sarebbe data ovviamente ai soccorsi. Si riunirebbe il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, presieduto dal ministro dell’Interno, che coordina anche vigili del fuoco e protezione civile. L’arrivo sarebbe contestuale ma sarebbero le ambulanze ad avere la precedenza. Ma questa è un’ipotesi da non prendere neanche in considerazione.