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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

Tutti i trucchi dei franchi tiratori per votare chi gli pare. C’è chi scrive il nome mentre cammina oppure chi indugia nel tabernacolo per poi consegnare scheda bianca

«Copertina, tabernacolo, catafalco...». Nella tradizione orale tramandata a Montecitorio conta molte definizioni quel gazebo con tendine che viene piazzato (anche in più esemplari) ai piedi dell’emiciclo per consentire ai grandi elettori di esercitare lontani da occhi indiscreti il più sacro dei riti parlamentari: il voto segreto per l’elezione del capo dello Stato.
E con i giochi ancora aperti – quando cioè i capi dei grandi partiti ordinano ai rispettivi gruppi di votare scheda bianca per non prestare il fianco all’avversario – i franchi tiratori devono bruciare i tempi, altrimenti possono essere smascherati. Chi vota scheda bianca, rispettando l’indicazione del gruppo, non deve fare altro che ritirare la scheda dalle mani degli assistenti parlamentari, attraversare il tabernacolo con passo lesto e deporre la medesima scheda piegata nell’urna di paglia sul lato opposto. Chi invece indugia a fare capolino oltre la tendina è segnato sul quaderno dei sospetti da tenere d’occhio.
Eppure, ammette una vecchia volpe del Parlamento come il senatore Enrico Buemi (socialista eletto nelle liste del Pd) «ci sono i trucchi per confondere le acque: il primo è scrivere mentre si cammina, portandosi dietro la matita in modo da non perdere tempo a cercarla sulla tavoletta. Se poi il nome del candidato proibito dal partito è corto il gioco è fatto....».
Però, il deputato del Pd Giuseppe Lauricella sostiene che è vero anche il contrario: «In realtà sempre di voto segreto si tratta e nessuno vuole fare capire come si è espresso. Per cui anche chi sceglie scheda bianca magari indugia all’interno del seggio per qualche secondo in più e infine esce dandosi un tono...».
Il controllo sulle truppe eventualmente indisciplinate spetta ai segretari d’aula dei singoli partiti. L’occhiuto Ettore Rosato, che nel gruppo del Pd della Camera ha preso il posto del mitico Roberto Giachetti, già si vede la scena. E se la ride: «Mi siederò al primo banco e conterò i secondi con il cronometro. Vedremo chi indugia...». Nel 1971, quando fu eletto Giovanni Leone anche con i voti del Movimento sociale italiano, il tabernacolo non aveva la tendina, ricorda il veterano Pino Pisicchio (gruppo Misto): «La sinistra Dc che era contraria a Leone passava sotto il banco della presidenza e mostrava la prima parte della scheda con su scritto “Leon”. Poi la girava e appariva “cavallo”. Tutto insieme diventava il nome del famoso compositore Leoncavallo». Tutto inutile, Leone passò al 23° scrutinio con 518 voti battendo Pietro Nenni (408).
Nell’era digitale, poi, sopravvivono tecniche artigianali per far riconoscere il proprio voto espresso su un supporto cartaceo. È successo anche nel 2006 quando Franco Marini fu eletto presidente del Senato: i diversi gruppi di centro sinistra, per lasciare le impronte digitali sulle schede, decidevano in anticipo di votare «F. Marini» oppure «Marini Franco» o più semplicemente «Franco Marini». Alla fine, Marini passò per un soffio (165 voti contro i 156 tributati a Giulio Andreotti indicato dal centro destra).
Nei verbali figurano i voti considerati dispersi. I vari «Rossi» e «Brambilla» seriali finiscono lì. Ma dal secondo scrutinio del 2006 (Napolitano I) il calderone inglobò anche le schede con i nomi di Adriano Sofri e di Cesare Previti che ostinatamente venivano votati da gruppi contrapposti. I due, condannati in via definitiva, e dunque ineleggibili, provocarono ampio e dotto dibattito tra i funzionari della presidenza. Che alla fine decisero per nasconderli tra i dispersi.