Corriere della Sera, 15 gennaio 2015
«Il terrorista fa una vita di doppio senso. Fa la vita del terrorista e un’altra vita, diciamo normale, va al lavoro se ha il lavoro in regola. Anzi è preferibile avere un lavoro in regola come copertura, poiché l’extracomunitario che lavora e contribuisce allo Stato è apprezzato». La confessione di Jelassi Rihad, jihadista pentito
«Il terrorista fa una vita di doppio senso. Fa la vita del terrorista e un’altra vita, diciamo normale, va al lavoro se ha il lavoro in regola. Anzi è preferibile avere un lavoro in regola come copertura, poiché l’extracomunitario che lavora e contribuisce allo Stato è apprezzato».
La voce di Jelassi Rihad è una «voce di dentro». Perché lui è stato reclutato, addestrato e poi nel 2010, con altri due tunisini, ha deciso di raccontare ai carabinieri del Ros la vita di un jihadista.
Le confessioni sono servite a far condannare tre mesi fa una «cellula» operativa in Puglia, ma soprattutto hanno aiutato gli specialisti dell’Arma a ricostruire i legami con altri gruppi a Roma, a Milano, in Francia e in Belgio. Secondo gli ultimi controlli cinque «foreign fighters» inseriti della lista dei 53 sarebbero rientrati in Italia. E su questo sono già state attivate nuove verifiche.
Il lavaggio del cervello
Le carte processuali svelano adesso strategie e obiettivi dei fondamentalisti. Dichiara infatti Rihad: «I gruppi da quattro o da sei persone hanno un legame con altri ma non si incontrano così, dodici o venti in un appartamento. Si incontrano in moschea così tanti. Di solito c’è un capo che comanda 4 o 5 gruppi, un capo spirituale». I «reclutatori», come evidenziano i carabinieri, «a differenza dei militanti per così dire addetti a compiti più stretta-mente operativi, non hanno un’estrazione povera e di emarginazione sociale, ma al contrario provengono da contesti socio-familiari agiati ed elitari, hanno una ottima cultura universitaria e spesso esperienze belliche significative».
Sono loro a scandire le giornate dei «soldati» che devono preparare a immolarsi per la jihad. Lo fanno nei call center o nelle moschee, dove i seguaci passano ore e ore di fronte ai video. Si va da «Al Qaeda training» ad «Allah Akbar», da «L’amante della jihad» a «Taliba Mujaheddin», tutti con immagini originali dei combattimenti. Rihad spiega che le «guide» «insistono nel spiegarti e nel parlare della morte, che diventa un trauma, un’ossessione. Ti fanno diventare la vita un inferno. Non c’è via di uscita che la morte». Chokri Zouaoui, anche lui «pentito», parla esplicitamente di «lavaggio del cervello» e dice: «Ho detto al mio avvocato: adesso tu sai tutto, sai la situazione, però ti garantisco una cosa, impara l’arabo, ti mando due settimane in mezzo a loro, e fammi vedere se non sei convinto di uccidere i tuoi compaesani».
I bersagli «civili»
Durante l’addestramento nei Paesi europei dove vivono, generalmente in maniera regolare, imparano anche dove e come colpire. Le indagini hanno accertato che «il bersaglio civile viene privilegiato dai terroristi di estrazione islamica rispetto a quello militare, e lo scopo di seminare il terrore nella popolazione assume un rilievo primario, superiore persino agli effetti materiali dell’azione militare-terroristica in senso stretto».
Per farlo «consultano i numerosi siti gestiti da gruppi fondamentalisti, da cui estrapolano documenti (anche audio-video) che hanno ad oggetto le istruzioni per la costruzione di ordigni esplosivi, per l’utilizzo di armi, per l’impiego di tecniche di sabotaggio e di incursione militare». Quando sono pronti vengono mandati all’estero per l’addestramento finale. Racconta Rihad: «Quando uno lascia il lavoro, lascia anche la casa e lascia tutto: è un gesto di essere molto disponibili. Oppure quando uno abbandona la fidanzata e poi ritira tutti i suoi soldi dalla banca è chiaro che questa persona ha intenzione di andare nella terra... per l’addestramento. Frequentando la moschea si conoscono le persone che, diciamo, ti aiutano, che conoscono le vie, si mettono in contatto, cioè, una catena».
In volo Roma-Peshawar
I pentiti sono espliciti: «Da solo non potrai mai arrivare ai campi di addestramento. Raccomandato devi essere. Quindi ti fanno vedere la strada. Non è così semplice, cioè devi avere tanta pazienza, sacrificio e vedono se sopporti. Puoi essere bloccato a Roma per mesi, che non puoi viaggiare perché la strada è un po’ calda, si dice così. C’erano delle case nei posti tranquilli dove rimangono per diversi giorni per far crescere la barba, i capelli. Ti fanno imparare come camminare, perché tu devi viaggiare come un pakistano. C’era il barbiere, il parrucchiere, tutto che ti fanno assomigliare al pakistano, non puoi partire con un aspetto così».
Le indagini hanno ricostruito le rotte seguite dai «foreign fighters». Una parte da Roma e arriva a Peshawar, in Pakistan. L’altra parte da Milano, passa per Francoforte e arriva a Peshawar. I collaboratori hanno confermato che «si va con documenti falsi. Non puoi viaggiare con i tuoi documenti. Con i tuoi documenti puoi fare, per esempio, Roma-Francoforte, vai con i tuoi documenti, ma lì, nascondi i tuoi e vai con altri documenti falsi, che ti servono per andare lì e poi tornare. Addirittura tornano alla scadenza dei loro documenti. Tornano in Italia due settimane, venti giorni. Tutte queste cooperative, che c’erano, ti davano i contratti di lavoro, le buste paga, come se tu fossi in regola, lavori in Italia che in realtà eri lì in Afghanistan, rinnovi il permesso di soggiorno e tutto e poi torni. E questo succede, succedeva a tanti qui in Italia».