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 2015  gennaio 14 Mercoledì calendario

Prima faceva politica, poi si è messo a produrre vino e ora scrive anche libri. Così Giovanni Negri, ex segretario radicale degli anni Ottanta ha cambiato vita: «Meglio il Barolo di Pannella»

«Sono felice di questa cosa molto americana e poco italiana che mi è accaduta: ho cambiato vita. Ho fatto un vino premiato fra i primi cento del mondo, esporto dal Canada al Giappone passando per l’Europa e i miei libri sono tradotti all’estero. Mi dica una sola buona ragione per cui dovrei avere nostalgia della politica». Giovanni Negri, classe 1957, è giunto alla sua terza vita. La prima è quella che lo ha fatto conoscere al grande pubblico: militava nel partito di Marco Pannella, fu segretario nazionale dall’84 all’88, anni epici per le battaglie radicali. Poi l’impresa del vino nelle Langhe e il suo nome ha fatto presto a tornare fuori: tempo pochi anni e la sua azienda, Serradenari, ha iniziato a sfornare bottiglie premiate a livello internazionale. La terza vita si sovrappone alla seconda: Negri è oggi scrittore affermato, il 20 gennaio esce per Piemme il suo nuovo romanzo, Il vigneto Da Vinci. Le capita mai di sfogliare l’album delle foto o di cercare il suo passato in Internet? «Mai. E poi come spiegava Proust, il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente». C’è una foto famosissima di lei, scheletrico, scattata negli anni degli scioperi della fame. I Radicali la usano ancora per ricordare le loro battaglie storiche. «Di quella foto vado orgoglioso. Non mi pento del mio passato. Anche se ho commesso degli errori». Il più grosso di tutti? «Il referendum sul nucleare. Demagogia. Vincemmo ma quella vittoria aggravò la dipendenza energetica del Paese. Oggi la paghiamo a caro prezzo». Oggi lei è favorevole alle centrali nucleari? «Sì, aveva ragione Felice Ippolito. La tecnologia permette energia sicura anche attraverso il nucleare». Altre cose di cui si pente? «Il buonismo carcerario e immigratorio. Un pensiero unico che ha contagiato sinistra e destra. Amnistia, indulto e accoglienza sempre e comunque, aiutano a mettersi la coscienza a posto ma non sono buona politica». Quando ha smesso di rinnovare la tessera del Partito Radicale? «Nel 1990, dopo la pseudosvolta transnazionale. Da allora non ho preso altre tessere». Perché ha smesso di fare politica? «Per la verità sono i Radicali ad avere smesso di fare politica. Potevano cambiare il Paese al crollo della prima Repubblica, costruire una nuova classe dirigente e il cambiamento, hanno scelto di fare la setta del reverendo Moon». Come sono oggi Roma e la politica viste dai vigneti delle Langhe? «Non avrei mai creduto di vedere il Paese in queste condizioni. È triste, la verità è che il declino rischia di farsi tragedia». Di chi è la colpa? «Ai difetti incancreniti italiani si somma un’Unione Europea che non è né una democrazia né un’economia. Oggi un cittadino italiano pesa quanto un suddito di Shanghai. Il 90% del potere che decide la sua vita è nella tecnostruttura di Bruxelles. Non mi stupisce che ognuno a suo modo, l’Inghilterra con Farage la Francia con la Le Pen e la Grecia con Tsipras, siano oggi in piena rivolta contro una tirannia di personaggi che non conosciamo, non controlliamo e non abbiamo mai votato». Renzi non è l’uomo giusto per tenere testa a questa “tirannide”? «Il renzismo è figlio della paura e della crisi. Mentre gli altri Paesi hanno espresso un voto di rottura, l’Italia si è radunata intorno a Don Matteo con un voto plebiscitario e democristiano. Ma anche fosse Superman o Mandrake, se Renzi non cambia radicalmente la politica economica dell’Eurozona finirà consumato come tutti gli altri». In che tempi? «Rapidissimi. Altro che Salvini o Grillo, il vero nemico di Renzi è l’euro, è questa Ue. O lui e Berlusconi vanno insieme a Bruxelles a dire che l’Italia non può più starci, che non si governa questa crisi a colpi di tecnocrazia e di austerità, oppure da qui a un anno Renzi sarà un ricordo pallido come Monti e Letta». All’estero considerano Giorgio Napolitano l’unico grande statista italiano. «Non partecipo alla santificazione. Stalinista a 30 anni e Merkelista a 80, il “grande statista” sarà ricordato per aver fatto il governo Monti, il partito di Monti, il governo Letta e per avere imposto ministri economici alla Fornero e alla Saccomanni, tutti senza uno straccio di voto democratico. Luigi Einaudi non avrebbe mai fatto un’operazione simile, per nulla europea e molto sudamericana. Se è una padre della patria, è un padre della patria alla frutta. E se tutti i giornali lo santificano non è perché è alto il suo profilo: è perché è basso quello della stampa italiana». A succedergli potrebbe essere la leader radicale Emma Bonino, che lei conosce bene. Che effetto le ha fatto quando ha detto alla radio di avere un tumore ai polmoni? «Alla Bonino tanto di cappello per la decisione di dare un annuncio pubblico della sua malattia, ho molto rispetto per chi ha la forza di condividere un percorso di dolore, di cura e speriamo di pronto ritorno a una vita normale». La Bonino alla Farnesina è stata un’occasione storica per i radicali. Se l’è giocata bene o è stata un’occasione persa? «Politicamente parlando del suo passaggio alla Farnesina non si è accorto nessuno. Quanto alle candidature, non capisco quanto le giovi candidarsi ormai e sempre a tutto: Quirinale, ministro di Monti, sindaco di Bra, Regione Lazio e non so cos’altro ancora. Il suo consenso, del resto, è solo mediatico. Quello elettorale è vicino allo zero». Si sente ancora con Francesco Rutelli? «No, io e lui abbiamo da anni frequentazioni diverse. Rutelli dopo avere frequentato i radicali mi pare abbia frequentato prima Occhetto, poi i cardinali Sodano e Sepe, infine il tesoriere Lusi». Parla mai di queste cose con Pannella? «Non lo sento da secoli. Non avremmo niente da dirci. Forse abbiamo molte cose da ricordare, ma non si vive di ricordi». Non ha sentito bisogno di chiamarlo nemmeno quando la sua salute si è aggravata? «No. Penso con affetto alla sua vecchiaia, ma la mia comunanza con Pannella è relativa a una fase della sua vita e della mia vita definitivamente chiuse». Che pensa delle nuove battaglie radicali? «Battaglie? In Pannella ammiro il piccolo imprenditore : ha trasformato un partito in una ditta, una radio, e lo ha fatto in modo molto abile e spregiudicato. Tanto di cappello per come sa utilizzare i contributi pubblici riuscendo ancora a stare a galla dopo quaranta anni». E lei? Come si è messo a fare il viticoltore? «Serradenari non nasce per caso. La mia famiglia possedeva dal 1880 questi terreni vicino a Barolo, nelle Langhe piemontesi, che un avo acquistò non per ragioni nobilissime o agricole, ma perché gli serviva una garçonnière in cui rifugiarsi a un’ora da Torino. Io ho ricostruito l’azienda quando è morto mio padre e in dodici anni sono riuscito a produrre quello che è stato giudicato da un’importante guida internazionale il primo Barolo in assoluto nel 2007». Però vende i suoi vini soprattutto all’estero. Perché? «Il mercato italiano non è adatto al Barolo, che al ristorante costa tra i 50 e i 150 euro a bottiglia. Capita anche che tu venda il vino e non ti venga pagato. Sbarcherò in Italia quando sarà il momento, adesso il mio obiettivo è quello di radicarmi nei grandi mercati internazionali». Com’è passato dal vino all’inchiostro? «Ho iniziato a scrivere libri quasi per scherzo e invece è diventato il mio secondo lavoro, soprattutto quando sono spuntati i traduttori stranieri. Il mio primo romanzo, “Il Sangue di Montalcino” è stato pubblicato anche dal più grande editore spagnolo e sudamericano». Dove trova il tempo di scrivere? «Il settanta per cento della mia attività legata al vino consiste nel viaggiare. Durante i lunghi spostamenti da un continente all’altro se mi annoio mi metto a scrivere. Sempre. In aeroporto, in aereo, in treno. Spesso un capitolo nasce guidando l’auto». Che succede nel suo nuovo romanzo? «È ambientato nella Milano di oggi. Il grande esperto di vini Attilio Scienza, che esiste veramente ed è docente di viticoltura all’Università di Milano, è chiamato a inaugurare il padiglione italiano dell’Expo, ma sparisce un mese prima che inizi l’esposizione. Il movente affonda le radici nel 1.400, quando Leonardo Da Vinci coltivava una vigna nel cuore di Milano». Una storia alla Dan Brown? «Niente affatto. Quella vigna è esistita sul serio, in corso Magenta, a Casa degli Atellani, di fronte a Santa Maria delle Grazie, dove Leonardo dipingeva l’Ultima Cena. Scienza ha davvero scoperto il luogo in cui Leonardo faceva il vino e molto presto il vigneto di Leonardo sarà riaperto». Manderà una copia del libro a Pannella? «No, non l’ho mai fatto e non lo farò nemmeno stavolta. Pannella è come il fiume Okavango, nel Botswana. Uno splendido fiume, con un unico difetto: non va al mare, sfocia nel deserto. E io non voglio spedire libri nel deserto».