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 2015  gennaio 14 Mercoledì calendario

Ammettere di avere un tumore è la prima mossa da fare per sconfiggerlo. Ecco perché Emma Bonino ha fatto bene a non rinchiudersi nella solitudine

Una parola limpida contro la spersonalizzazione dei malati oncologici: «Io non sono il mio tumore e voi non siete la vostra malattia». La dichiarazione dell’altro giorno di Emma Bonino è un aiuto a chi vive un passaggio difficile dell’esistenza e anche ai loro familiari e ai loro amici, invitati a considerare le persone care che hanno ricevuto una diagnosi di questo tipo come ancora tutti interi, ancora loro. Sì, l’esposizione di una persona famosa può dare coraggio, «perché – spiega Claudia Borreani, responsabile della Struttura di Psicologia Clinica all’Istituto dei Tumori di Milano – fa uscire dalla chiusura e dalla solitudine. E fa dire ai malati: ma allora si può parlare di questa esperienza, si può viverla in maniera più positiva del previsto». Lo hanno fatto personalità pubbliche tra le più diverse: da Steve Jobs, che nel discorso agli studenti di Stanford raccontò di aver ricevuto la diagnosi «quando il pancreas non sapevo neanche di averlo» ad Al Bano, dallo scrittore inglese Christopher Hitchens a Kylie Minogue, da Michael Douglas a Jamie Dimon, il numero uno della Jp Morgan.
Le scelte
Ognuno ha trovato le proprie parole per dirlo, perché ognuno è sé stesso: «E l’elemento più significativo è proprio il rispetto della scelta del paziente», sottolinea Gabriella Pravettoni, direttore dell’Unità di Ricerca Applicata per la Scienza Cognitiva e Psicologica dell’Ieo. «Nel caso specifico, è importante salvaguardare ciò che la Bonino vuole. Altri scelgono di non parlare, altri soffrono per forzature nelle condivisioni delle emozioni di gruppo. Noi dobbiamo imparare a rispettare chi abbiamo davanti e il suo sistema di credenze, valori e ideali, dando una risposta personalizzata a ciascun paziente. Ma di certo l’outing della persona famosa combatte lo stigma che spesso i malati avvertono come condizione legata alla patologia oncologica».
La buona notizia è che, insieme ai continui, enormi progressi della ricerca, anche il sostegno psicologico può dare molto più sollievo ai pazienti rispetto soltanto a pochi anni fa. È più marcata la multidisciplinarietà, per cui la presa in carico del malato è sempre più spesso condivisa da diversi medici e con loro da uno psicologo, che non solo assiste il paziente ma fornisce consulenze al gruppo terapeutico. Ed è minore il pregiudizio dei malati, che hanno meno pudore a farsi seguire, in quei frangenti così difficili, anche da uno specialista della psiche.
Famiglia e amici
Ancora la dottoressa Borreani: «Cerchiamo di puntare l’accento su ciò che il paziente ha dentro di sé e intorno a sé, sulle sue risorse personali. Non tanto sulla sofferenza ma su quello che lo fa star meglio. È un percorso non facile, ma che può essere incentrato su pensieri di vita e non di morte. E non si è da soli, perché c’è la famiglia, ci sono gli amici, ci sono i medici e gli altri ammalati». Molto hanno fatto, naturalmente, le nuove terapie, gli interventi meno invasivi, la minore necessità di ricorrere a lunghi ricoveri. Oggi capita che si vada a fare la chemio e poi si corra al lavoro: il guscio rassicurante del quotidiano permette di considerare quello come un momento fra i tanti della giornata, contenendo l’angoscia. E se la rivelazione resta un trauma scioccante, sempre più spesso il paziente è subito messo di fronte a molte vie: capisce che dentro a quella fetta di vita ci si può entrare in molti modi diversi, e che il come può fare la differenza. Perfino dal punto di vista clinico, perché è difficile quantificare i risultati, ma molte ricerche tendono a mettere in relazione una più lunga e migliore sopravvivenza con una maggiore dose di «empowerment», che è poi la capacità di prendere in mano con coraggio la situazione. Anche nell’eventualità di un esito non positivo, segnala la dottoressa Borreani con i suoi quasi 25 anni di esperienza, «un percorso rielaborato in tutte le fasi accompagna alla fine in modo più sereno e più consapevole». Da uomini interi e donne intere, e non da nomi scritti su una cartella clinica.