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 2015  gennaio 14 Mercoledì calendario

Mancini a 360 gradi. Parla anche di Balotelli. «È uno buonissimo. Andava a spasso con i miei figli...»

MILANO Il grigio sulle tempie. Quel mezzo sorriso, appeso tra uggia e ironia. I pantaloni di buon taglio, come ciascuno dei suoi gol. Le mani dalle unghie curatissime, capaci di ridar forma al magma Inter dopo i viaggi negli altri mondi. Sotto il ciuffo, Roberto Mancini.
50 anni e 47 giorni. Come sta il Mancio?
«Brutta botta, il giro di boa dei 50. Mio padre Aldo ha sempre avuto i capelli bianchi: lo vedevo anziano anche da giovane. Fino al giorno prima non realizzi. Poi arriva mia figlia Camilla: papà, sei vecchio! Ma nel complesso sono felice: ognuno ha quello che merita».
E l’Inter-bis del Mancio come sta?
«Ci vuole tempo. Abbiamo perso le prime due partite ma siamo cresciuti in fretta. Sono colpito dalla ricettività dei ragazzi. Facciamo i passi giusti».
E il vituperato calcio italiano, visto da un globetrotter, come sta?
«Meglio di come ci raccontano. La crisi si sente anche nel pallone e dopo un Mondiale finito male le critiche erano scontate, ma la situazione non è disastrosa. Nelle strutture – settori giovanili, stadi – siamo indietro. E lo paghiamo».
Che ci fa di nuovo a Milano?
«Sono qui perché penso che l’Inter possa tornare quella che era. Sono qui per cambiare le cose. Pensare al terzo posto mi infastidisce un po’: l’anno prossimo lotteremo per il campionato».
Non è una minestra riscaldata, quindi.
«Sono passati oltre sei anni. E io non volevo tornare: puoi solo far peggio, mi dicevo. Ma in fondo la sfida di rimettere in piedi l’Inter e tornare a vincere mi piaceva. Una mattina, dopo Thohir, mi ha chiamato Moratti. È sicuro che devo riprovarci? gli ho chiesto. E lui: certo!».
Fine del grande gelo.
«Ma no, nessun gelo. Io me n’ero andato dopo aver vinto, Moratti aveva continuato a vincere: ci siamo divertiti tutti. Ogni Natale lo sentivo per gli auguri. L’Inter ha due presidenti: mi chiama come prima. Solo Paolo Mantovani amava i giocatori più di lui».
Il vero boss, però, è Thohir.
«L’ho visto una volta sola e mi ha fatto un’ottima impressione: pratico, svelto. Più vicino ai proprietari delle squadre inglesi che ai nostri presidenti italiani. Ma ci tiene tanto».
In famiglia come l’hanno presa?
«Papà mi ha detto: vai subito! Aveva paura che finissi chissà dove... E mio figlio si è molto raccomandato che mi facessi comprare i giocatori».
Ma da bambino sognava di allenare?
«Macché. Sognavo solo scarpe di pezza e pallone di cuoio. A Coverciano però, durante un raduno dell’Under 21, m’informai se potevo prendere il patentino. Qualcuno, saggiamente, mi fece tornare in me: pensa a giocare, valà, che è meglio...».
Più emozionante il debutto in A a 16 anni col Bologna o il primo gol?
«Quando Burgnich mi mandò in campo la prima volta avevo i denti che battevano per la paura: tatatatatatata, avanti così cinque minuti. Non lo dimenticherò mai».
Più bello il primo o il secondo debutto con l’Inter?
«Nel 2004 ero giovane: sedersi sulla panchina dell’Inter non fu facile. A 50 anni, è diverso. L’esperienza all’estero mi ha insegnato tanto».
Perché Balotelli ha rigato dritto solo con lei, all’Inter e al Manchester City?
«In nerazzurro con me era un ragazzino: avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche pulire gli spogliatoi. Al City, per due anni e mezzo, si è comportato bene. Con Mario non è facile: quello che gli entra da un orecchio, gli esce dall’altro. Ma io lo devo ringraziare».
Le dispiace che sia il più grande calciatore italiano imploso della storia?
«Moltissimo. Mario usciva con i miei figli, e il fatto che fossero più o meno coetanei mi ha aiutato a relazionarmi con lui. Come ragazzo, gli voglio un gran bene. È un buono, uno che fa le cose di cuore. Credo che ce la stia mettendo tutta a Liverpool. Dipende solo da lui. È ancora giovane, ha la forza di rialzarsi».
La forza. Ma la testa?
«Eeeeeeeh... Deve trovarla. Dopo aver lasciato il City è calato in ogni aspetto del gioco. Ero convinto che al Milan riuscisse a far bene, invece... Io non ho idea di quale possa essere la sua medicina però di certo se lo alleni ti devono pagare doppio: l’indennità Balotelli».
Cosa rischia?
«Di fare la fine di Adriano. Per altri motivi, ma la stessa».
Ha l’umiltà di chiederle qualche consiglio, dati gli eccellenti rapporti?
«Da Manchester, non l’ho mai più sentito. La mia speranza è che si svegli una mattina e si renda conto che sta buttando via tutto».
Quanto spese in vini per Sir Ferguson, al City, Roberto?
«Ah, Alex era difficilissimo da accontentare. Il suo ufficio allo United era pieno delle migliori etichette di Francia. Un giorno feci arrivare una bottiglia dall’Italia, pagandola 500 euro. Soldi ben spesi: gliela regalai il giorno che vincemmo il derby 6-1».
Ha le mani bucate?
«Da giocatore, sì. Le 90 mila lire che mi davano al Bologna come rimborso spese duravano poco. Le 700 mila lire che i compagni misero insieme un Natale come incentivo per far gol ed evitare la retrocessione, le affidai a papà Aldo e mamma Marianna. Poi, dalla Samp in poi, un po’ di sfizi me li sono tolti: automobili, orologi. Cose da calciatori».
A proposito di cose da calciatori: i foglietti in campo come sono nati?
«L’idea mi è venuta al Galatasaray, in Turchia, dove c’era il problema della lingua: io parlavo inglese e loro turco. Funzionano. Sono semplici e immediati. Continuerò a usarli».
Da ragazzo Bettega e Boninsegna. Oggi, a 50 anni e 47 giorni, ha punti di riferimento?
«Woityla, il Papa dei miei anni. Gli sono rimasto legato. Mandela, di cui ho letto la bella biografia. Mi è piaciuta anche quella di André Agassi: incredibile vedere quali risultati possa produrre un padre che spinge il figlio a odiare il suo sport».
Tra cent’anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come un grande calciatore».
Non allenatore?
«Vuole scherzare? È molto più divertente fare gol che vederlo fare. Non se ne rendono conto, i giovani d’oggi. Buttano via vita e carriera. Meglio una partita in A che mille notti in discoteca».