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 2015  gennaio 14 Mercoledì calendario

Così hanno salutato tutti gli altri Presidenti della Repubblica. Cossiga preoccupato di pronunciare una frase buona per la Storia, Scalfaro nostalgico di Carlo Alberto

Roma Nessun presidente della Repubblica, fra gli 11 che abbiamo avuto finora, ha lasciato l’incarico preoccupandosi di pronunciare frasi per la storia. Tranne uno: Francesco Cossiga, che accompagnò la sua uscita di scena con un messaggio-testamento d’impatto teatrale, nell’Italia già in scivolamento verso una crisi di sistema. Annunciò le dimissioni il 25 aprile 1992, data fondativa della Nazione e dunque molto simbolica, con un messaggio in diretta tv. «Io sono un uomo solo e quindi non posso considerarmi un uomo forte… mi chiedo se questa classe politica non debba essere inchiodata alle sue responsabilità eleggendo presto e bene un capo dello Stato e ponendo quindi le basi per affrontare e gestire la crisi politica del Paese… ecco perché lascio».
Un addio che il «picconatore» maturò al culmine di una lunga battaglia con i partiti, specie la Dc, ai quali aveva lanciato una profezia della catastrofe. Nell’ultima settimana si era preparato perfino spiritualmente, senza trascurare qualche bordata finale a chi assediava il suo Quirinale chiuso come un nuraghe. Rileggeva brani degli amati poeti elisabettiani. S’ispirava in raccoglimento sulla tomba di Moro, a Torrita Tiberina. Programmava un «disintossicante» viaggio in incognito a Dublino e in Costa Azzurra. E si chiudeva a pregare nella cappella del palazzo proprio mentre il candidato a succedergli (e all’epoca suo accusatore), Scalfaro, chiedeva «una preghiera per lui» all’assemblea dell’Azione Cattolica. Tutto molto Prima Repubblica e molto democristiano. Tra veleni residui, sorrisi un po’ malinconici e, certo, sollievo. Compresa l’uscita da quello stesso palazzo di Oscar Luigi Scalfaro, sette anni più tardi, nel ’99. Fu quasi una fuga «contando i giorni» perché – raccontava – «lì dentro ho vissuto una spaventosa traversata». Al punto che, schiacciato dall’ansia di tornar a «respirare», nei giorni che precedettero il congedo volle riconciliarsi «con il mio futuro da uomo libero» rivedendo la propria città natale, Novara. Avvertendo che vi si sarebbe ritirato «come Carlo Alberto», e la citazione era curiosa in quanto rimandava a una sconfitta storica. Poi, una volta completati i riti del commiato, si precipitò subito a Montecitorio invece che a casa. Per un caffè alla buvette tra i vecchi colleghi d’Aula e per tirare il fiato nel luogo dove aveva lavorato per 46 anni, una vita.
Tutto molto simile, in fondo, al saluto al Paese del laico Carlo Azeglio Ciampi. Il quale, mentre predisponeva il trasloco, definiva il Colle «un posto pericoloso, perché basta un niente per sbagliare e perdere la faccia e la dignità». E di quest’ultimo valore era particolarmente orgoglioso, avendolo ereditato come una bussola dal padre. Pure lui, in una specie di ansia di ritrovare le radici della giovinezza e ricongiungersi con la sua stessa storia, in quei giorni aveva spiazzato il cerimoniale volendo fare una veloce trasferta nella città dove si era formato, Livorno, e rivedere la sua gente. Al Quirinale aveva raccomandato allo staff di catalogare i documenti del settennato per «affidarli all’istituzione, così che siano gli archivisti a decidere quali fascicoli debbano esser considerati riservati». Un modo per affermare, con orgoglio, che lui non aveva scheletri da seppellire e che i ricercatori della Terza Repubblica non avrebbero trovato alcun omissis né misteri o pagine oscure sulla sua presidenza.
Più o meno ciò che avrebbe voluto fare Giovanni Leone, costretto a dimettersi da una campagna di stampa e politica nutrita di accuse (un coinvolgimento nello scandalo Lockheed) alle quali era del tutto estraneo e di cui fu risarcito da Pannella e Bonino con pubbliche scuse molti anni più tardi, prima di morire. Così, fu amarissimo e carico di tensioni, il suo addio al Colle. Ma pure lui diede una lezione di stile. Infatti, non pronunciò una sola parola, anche se avrebbe avuto molti motivi di rancore.
M. Br.