Corriere della Sera, 14 gennaio 2015
Per Giorgio Napolitano è arrivato il momento dei saluti. La domanda di una bambina lo mette in imbarazzo
Ascoltando l’ingenua domanda di una bambina che lo affronta davanti alla reggia laica della Repubblica, lo sguardo gli diventa velato, con qualche brillio di commozione. È contento di tornare a casa, presidente? «Certo che sono contento. Il momento è arrivato», dice con un sospiro liberatorio. «Qui è tutto molto bello, ma insomma si sta un po’ troppo chiusi, si esce poco, quasi come in una prigione… A casa starò bene e potrò passeggiare».
Sono le ultime ore di Giorgio Napolitano al Quirinale e i rigidi rituali del congedo non sono ancora scattati. Tanto che un gruppo di ragazzini può tranquillamente avvicinarlo e, senza badare a protocolli e cerimoniali, porgli l’interrogativo che molti vorrebbero girargli per cogliere un umore, uno scatto di malinconia, un programma per il futuro, una recriminazione magari. Per capire come si sente e che cosa farà d’ora in poi l’unico capo dello Stato che abbia «regnato» per nove anni, quasi tutti travagliati, e che oggi si dimette. Ma non è il momento delle confessioni pubbliche, per lui, se mai ne ha fatte data la riservatezza con cui protegge (assai pignolo e british pure in questo) la propria sfera più intima. Non ancora, almeno.
È il momento dei saluti, piuttosto, e degli «auguri all’Italia», nella speranza «che sia unita e serena». Un auspicio che lega alla tragedia dell’assalto terroristico a Parigi, «anche perché viviamo in un mondo molto difficile». E si spiega, avendo al fianco le forze di polizia: «Abbiamo visto nei giorni scorsi cos’è successo in un Paese vicino e amico come la Francia. Siamo molto incoraggiati dalla straordinaria manifestazione di Place de la République. Però dobbiamo sempre stare in guardia senza fare allarmismo. Dobbiamo esser consapevoli della necessità, pur nella libertà di discussione politica e di dialettica parlamentare, di un Paese che sappia ritrovare di fronte alle questioni decisive e nei momenti più critici la sua fondamentale unità».
Anche se il punto di partenza del ragionamento è la questione jihadista, in queste parole c’è la sintesi di quella che è stata la «dottrina» istituzionale, chiamiamola così, cui Napolitano si è ispirato. Favorire la coesione in un Paese avvitato nel vizio di dividersi, aiutare il dialogo nelle emergenze, modernizzare la macchina dello Stato. Ecco perché il suo assillo costante si è concentrato su come garantire la stabilità e preservare le scadenze naturali delle legislature, a costo di sentirsi accusare d’aver inventato «abusivamente» due, anzi, tre governi (da Monti a Renzi, passando per Letta) senza aver fatto aprire le urne. Un assillo e un impegno che, promette, non s’interromperà: «Darò ancora il mio contributo, resterò vicino agli sforzi degli italiani». Il che significa ripudiare qualsiasi ipotesi di «pensionamento» dalla vita pubblica, per quanto sia oggi stanco e provato. Lavorerà al Senato, invece, per accompagnare le riforme sulle quali ha tanto insistito e il cui cantiere è finalmente aperto. E contribuirà con il suo voto a eleggere il proprio successore (la prima votazione sarà il 29 gennaio alle 15), nella speranza che abbia il profilo adeguato alla sfida.
È questo il mood un po’ minimalista, il clima sdrammatizzante di una vigilia che al Quirinale era cominciata da almeno un mese. Da quando cioè Napolitano aveva preannunciato allo staff dei consiglieri di volersene andare alla fine del semestre italiano di guida europea. Spiegando poi a ogni interlocutore (specie membri del governo e Renzi in particolare) che tentava di pressarlo per un ripensamento come la sua «personalissima» decisione dovesse comunque restare slegata dalle logiche parlamentari.
Aggiungendo che le assemblee di Palazzo Madama e Montecitorio sarebbero comunque rimaste attive e nella pienezza delle loro funzioni anche sotto la supplenza di Piero Grasso. Come dire: nessuno giochi con le mie dimissioni imputandomi eventuali inconcludenze rispetto agli appuntamenti legislativi che avete in calendario... andate avanti perché avete tutta la legittimità per farlo.
Esattamente quello che il premier punta a fare, come ha assicurato al capo dello Stato nel lungo faccia a faccia dell’altro ieri, cercando di darsi coraggio e accogliendo l’invito a non raccogliere provocazioni politiche che potrebbero compromettere l’intera partita. Del resto neppure Napolitano ha voluto raccogliere provocazioni, in questi giorni, e non lo farà neppure domani, lasciando il Colle.
L’atteggiamento che si è ripromesso di tenere anche nelle ultime ore è lo stesso che ha voluto dimostrare nel messaggio riservato alla gente comune la notte di San Silvestro: con l’invito ad avere fiducia nonostante tutto e a stringere i denti senza alcun cenno recriminatorio a chi – dal giorno in cui è stato rieletto – lo ha messo sulla graticola politicamente e mediaticamente, con accuse molto pesanti pure sul piano personale. La più «leggera», ma ricorrente da un centrodestra sempre ondivago nei suoi confronti, quella di esser rimasto in fondo «un comunista», come ai tempi della conventio ad excludendum concepita per tenere il Pci fuori dalla stanza dei bottoni. Senza distinguo storici e culturali e senza tenere conto del complesso percorso dentro le istituzioni, anche europee, da lui compiuto in più di mezzo secolo.
Evocare la «serenità» era l’ipocrita scorciatoia lessicale cui spesso ricorrevano i politici della Prima Repubblica per nascondere i loro sentimenti, che erano magari acri e incendiari oppure dolorosi e depressi. Eppure ieri al Quirinale tristi o irritati erano semmai certe figure dello staff, che com’era inevitabile si sono identificati nel «capo» in questi nove anni. Ma tutti giuravano che era proprio questo l’atteggiamento del presidente, senza infingimenti: «Sereno come chi sa di aver fatto del suo meglio nell’interesse dell’Italia. Altro che anomalie e invadenze al di fuori della Costituzione».