Corriere della Sera, 13 gennaio 2015
L’ex primo ministro greco Papandreou apre a Tsipras e fonda un nuovo partito: «Il Pasok è diventato parte del sistema che voglio cambiare. Dobbiamo ringiovanire le idee per cui ho lottato»
Quando Ronald Reagan, nel 1962, passò dai democratici ai repubblicani, disse una celebre frase: «Non sono stato io a lasciare il Partito democratico. È stato il Partito democratico a lasciare me». Chiedo all’ex premier greco George Papandreou se condivide quel sentimento, ora che ha lasciato il Pasok, il Partito socialista fondato dal padre Andreas, per creare una nuova forza politica, To Kinima, il movimento.
«Certo non condivido le politiche di Ronald Reagan. Ma battuta a parte, io non sto cambiando partito, sto costruendo una cosa nuova. Il Pasok è diventato parte del sistema che voglio cambiare. Dobbiamo ringiovanire le idee per cui ho lottato, riformare la politica greca e lo Stato in senso più giusto, efficiente e trasparente, far rifiorire l’iniziativa privata e incoraggiare la creatività dei giovani, oggi mortificata da un sistema clientelare».
George Papandreou ha pagato un prezzo molto alto al suo coraggio politico. Se nel 2011 non avesse proposto di mettere a referendum il programma di austerità per la Grecia, concordato con l’Unione europea, probabilmente sarebbe ancora al potere. Ma se quella consultazione avesse avuto luogo, e lui l’avesse vinta com’era probabile, la Storia avrebbe preso una piega diversa: il mandato del popolo greco avrebbe fugato le incertezze e forse scoraggiato la speculazione, che invece si abbatté sui mercati, iniziando quel domino distruttivo che avrebbe toccato altri Paesi, vale a dire Portogallo, Spagna e Italia.
In vista delle elezioni politiche del 25 gennaio, To Kinima nelle previsioni più ottimiste è accreditato del 5%. In testa è Syriza di Alexis Tsipras, il leader populista che chiede il condono del debito greco senza condizioni.
Come giudica Syriza?
«Tsipras parla di tagliare unilateralmente il debito, ampliare il ruolo dello Stato, nazionalizzare, varare un pacchetto di stimolo all’economia. Ma se non si cambiano le strutture produttive, l’effetto sarà effimero. Lo ha già fatto il governo conservatore di Caramanlis, nel 2007-2008. Il denaro andò tutto verso l’acquisto di beni di consumo stranieri, con le conseguenze che sappiamo. Abbiamo bisogno di investimenti privati, quindi di regole moderne, cose su cui Tsipras non dice nulla. La sua formula sembra semplice, ma non può mai funzionare e il suo programma in ultima analisi renderebbe la vita ancora più dura per il nostro popolo. Inoltre alimenterebbe il clima nazionalista, meno solidale, più xenofobo che già soffia sull’Europa».
Ma lei non esclude di collaborare con Syriza dopo il voto.
«Se fa una svolta spettacolare e accetta di affrontare i problemi veri, a cominciare dalla riforma del settore pubblico, si può discutere».
Mettiamo che Syriza sia primo partito e lei prenda il 5%. Cosa fa il 26 gennaio?
«Ho già presentato delle proposte. Certo abbiamo bisogno di negoziare qualche sconto sul debito, margini temporali più ampi sui rientri, compresa la clausola che se c’è più crescita paghiamo di più. Oggi però servono misure urgenti per lo svi-luppo: attualmente l’avanzo primario va solo a ripagare il debito. Invece va usato per un programma radicale di riforme greco: sanità, pubblica amministrazione, giustizia, fisco. Potremmo anche sottoporlo a referendum: segnalerebbe ai partner e ai mercati che Atene è credibile e affidabile per il futuro. Su questa base possiamo negoziare con Syriza».
Il governo di Samaras ha applicato le ricette chieste dall’Ue e dal Fondo monetario. Cosa avrebbe fatto lei di diverso se fosse stato premier in questi anni?
«Il primo errore di Samaras fu insistere nel tenere le elezioni nel 2012. Non so come sia altrove, ma in Grecia si ferma tutto. Abbiamo perso quasi un anno, nel quale avremmo potuto continuare il processo di riforma avviato nel 2009 dal mio governo. L’altro errore è stato di mettere tutto l’accento sull’austerità, più tasse, più tagli. Samaras ha fermato le nostre riforme e oggi gioca sulla paura delle persone. Io avrei messo l’accento sulla qualità, cioè sulle riforme strutturali che ci permetterebbero in futuro di non produrre più deficit e debito. Le faccio un esempio: quando decidemmo che tutte le prescrizioni mediche dovevano essere fatte online, cambiamento semplice ma che sollevò tanta resistenza, i costi della sanità scesero del 30%».
L’uscita della Grecia dall’euro è opzione realistica?
«Spero di no. Comunque se il tema è riemerso, sia il premier che Tsipras ne portano la responsabilità. Samaras ha provato a rivolgersi ai mercati prima di essere sicuri che fossimo su un chiaro sentiero di riforma. Syriza ha spaventato tutti. Ma ci sono state dichiarazioni incaute anche da parte di dirigenti europei. Dovremmo essere più seri, sia in Grecia che in Europa. Dovremmo superare il conflitto redistributivo in corso e il dibattito inutile su chi è il più virtuoso o il più dissipato. Occorre una nuova solidarietà».
La sua è anche una ricetta contro i populismi?
«Dobbiamo essere sinceri, ma anche visionari perché stiamo sottovalutando il nostro potenziale. Stiamo regredendo verso il nazionalismo, gli istinti tribali, gli stereotipi. Gettare la colpa sugli altri, può portare qualche voto in più nel breve periodo. Ma noi siamo forti solo insieme. La Grecia è diventata l’alibi della narrativa, secondo cui non si può lavorare insieme, ci sono troppe differenze tra settentrionali e meridionali, eccetera. Il nazionalismo è la minaccia più grande: dobbiamo rompere la spirale della sfiducia e del sospetto reciproci. Perché alimenta i populismi».