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 2015  gennaio 13 Martedì calendario

Solo un nome, nessuna rosa. A ventiquattro ore dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, Renzi ha fatto sapere che «il Pd è capace di esprimere un unico candidato autorevole». Tanto più che Berlusconi accetterà chiunque, a patto che non sia palesemente ostile

A 24 ore dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, Renzi fissa le regole del gioco per la successione. «Non farò una rosa di nomi. È una pratica della vecchia politica. Il Pd è capace di esprimere un unico candidato autorevole». Il nome secco verrà ovviamente sottoposto al vaglio di tutti i grandi elettori o meglio dei loro capi, ma il premier-segretario vuole evitare che sia qualcun altro a scegliere nel mazzo democratico. Una prova di forza, se vogliamo, che si fa scudo anche della debolezza del principale interlocutore, Berlusconi. L’identikit che ha in mente Renzi contiene un altro tassello: «Il candidato sarà uno di noi, del Pd. Un politico», racconta ai suoi collaboratori. Finiscono così i sogni di gloria per tecnici, esterni e concorrenti provenienti dal mondo centrista.
Da Palazzo Chigi, quando manca pochissimo all’addio del capo dello Stato, cominciano quindi a filtrare non solo criteri di metodo ma anche indicazioni politiche. La “rosa” sembra davvero non avere alcun senso, tanto più con un Berlusconi disponibile a non mettere veti, ad accettare un nome qualsiasi a patto che non sia palesemente ostile, un Berlusconi che chiaramente sconta una posizione molto indebolita rispetto a un anno e mezzo fa quando fu decisivo nel bis di Napolitano. Forza Italia è indispensabile numericamente per eleggere il nuovo presidente della Repubblica ma sul piano politico ha scarsi margini di manovra. Ad Arcore, per esempio, la vicenda del decreto fiscale la raccontano in maniera machiavellica: «Ha fatto tutto Renzi. Ha scritto la norma del 3 per cento per mandarmi un segnale in vista del voto sul Colle. Ma l’ha pasticciata per farla saltare e non escludo che sia stato lui a passarla ai giornali», è la versione sospettosa dell’ex Cavaliere. E tu ti fidi ancora, gli hanno chiesto quelli del cerchio stretto. «Non posso fare altrimenti – è stata la risposta del leader di Fi –. Se penso alle alternative, per noi Renzi è la soluzione meno pericolosa».
I rapporti di forza sono questi. E non è certo un caso che il premier continui a ripetere: «Prima di tutto devo chiudere la partita dentro al Pd». Il problema si annida nei gruppi parlamentari di Largo del Nazareno, nel mare magnum dei suoi numeri giganteschi: ben 450 grandi elettori e chissà quanti franchi tiratori. Il primo tempo del match si gioca venerdì, nella direzione convocata ieri in tutta fretta. Sarà l’occasione per aggiornare la “lista” che Luca Lotti tiene nel cassetto e nel suo pc. Anzi, per dargli una struttura molto più definita, con le cifre di fedelissimi, incerti, contrari e irriducibili antirenziani, anche sulla base dell’identikit che Renzi proporrà ai compagni di partito e delle prime reazioni che si manifesteranno nella riunione. Seppure scremato da tecnici e esterni, con i criteri fissati dal segretario il gruppo dei candidabili rimane abbastanza folto. Il Pd può schierare parecchi nomi, tra quelli di maggior peso e altri con chance minori ma sempre potenziali outsider. Si parte dagli ex segretari: Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani. Sullo sfondo rimane il fondatore Romano Prodi che però ad Arcore continua a essere visto come un nemico. Ci sono poi le “sorprese”: Anna Finocchiaro, Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti, Graziano Delrio, Roberta Pinotti, Arturo Parisi. Adesso l’elenco di Lotti, braccio destro e sinistro del premier, comincia ad avere elementi di maggiore precisione. I voti sicuri dentro al Pd sono abbinati ai singoli nomi, per ca- pire chi in partenza ha più possibilità di arrivare al traguardo senza inciampare nel voto segreto.
Renzi promette un presidente dalla quarta votazione, quando sarà sufficiente la maggioranza assoluta degli aventi diritto, ovvero 505 voti. Vuole un nuovo inquilino del Quirinale il 30 gennaio, all’indomani della prima seduta delle Camere congiunte, al massimo il 1 febbraio. Per arrivare a quella soglia ha bisogno dell’appoggio Forza Italia e dei centristi, fondamentali cuscinetti contro franchi tiratori sparsi e inevitabili. Al momento il premier non esclude un incontro faccia a faccia con Berlusconi. In cambio di un’assenza di veti si può ben concedere l’onore delle armi di un patto del Nazareno anche sul successore di Napolitano. Semmai il vertice si farà avverrà a ridosso del 29 febbraio. E non prima dell’assemblea dei grandi elettori democratici alla quale Renzi affida il compito solenne di offrire la soluzione. Dev’essere una assunzione di responsabilità collettiva, per far capire che un eventuale fallimento non potrà non avere ripercussioni sul partito e sulla legislatura, facendola finire in anticipo. La direzione è solo un passaggio iniziale, nelle intenzioni di Renzi. Conterrà anche un omaggio formale e sostanziale all’uscente capo dello Stato per i nove anni di servizio al Paese. Ma venerdì, senza dubbio, si inizierà a scoprire le carte sul dopo.