Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2015
Le misure del Trattato di Schengen relative alla mobilità delle persone possono essere riviste alla luce dell’esperienza e delle necessità ma non vanno stravolte. È in discussione uno spazio necessario simbolo dell’Europa unita
Nei giorni immediatamente successivi agli attentati di Parigi la discussione sulla necessità e opportunità di rivedere Schengen ha assunto i toni di una polemica infuocata, in cui molto spesso due retoriche, ben più che due narrative, si sono affrontate sorde l’una alle argomentazioni dell’altra. La contesa non sempre e non dappertutto rispecchia la contrapposizione tra “europeisti” ed “euroscettici”, ma certamente riflette la fatica se non proprio il disincanto crescente nei confronti del progetto europeo e delle sue istituzioni. Provando a parafrasare Freud, potremmo descrivere la situazione come segue. Per i primi le «disposizioni sull’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne» dello spazio Schengen è un tabù pari quasi a quelli dell’incesto e del cannibalismo. Per i secondi si tratta invece di un totem, l’oggetto su cui scaricare le responsabilità per tutto ciò che, come ogni evidenza, è ancora assai insoddisfacente rispetto alla sicurezza europea. Converrebbe invece partire da un duplice riconoscimento. Da un lato anche le prescrizioni contenute nel Trattato di Schengen relativamente alla mobilità delle persone possono essere riviste alla luce dell’esperienza e delle necessità. È l’ipotesi abbozzata ancora molto confusamente dai governi di Parigi e di Madrid. Nel caso francese occorre ricordare che le autorità transalpine (imitate da quelle belghe e tedesche) sospesero di fatto l’applicazione del Trattato nel 2011, quando, in occasione di una massiccia ondata di sbarchi a Lampedusa, l’allora ministro degli Interni Maroni cercò, attraverso la concessione di «permessi di soggiorno temporanei» validi per l’espatrio, di liberarsi in un colpo solo della grana dei migranti e dei migranti stessi. Dall’altro non va dimenticato che cosa Schengen ha rappresentato e rappresenta per l’Europa: un passo avanti gigantesco di cui ogni cittadino dei Paesi aderenti ha potuto concretamente sperimentare l’impatto sulla propria libertà di movimento e uno straordinario simbolo del cammino – compiuto e ancora da compiere – verso l’obiettivo di un’Europa finalmente unita anche politicamente.
Muoversi liberamente per l’Unione senza dover mostrare alcun documento ha rappresentato il pendant del passaporto color melanzana, comune a tutti i cittadini dell’Unione: un solo passaporto e un solo spazio interno, “come l’America”. È vero, siamo molto lontani dalla struttura federale degli Stati Uniti e, probabilmente, la UE non prenderà mai la forma degli USA. Ma muoversi tra la Francia e l’Italia come tra l’Arizona e lo Utah ha regalato a milioni di cittadini europei la sensazione più vivida di essere davvero parte di un’Europa unita. In fondo, anche la gigantesca manifestazione di domenica a Parigi è stata innanzitutto un simbolo di quell’impalpabile essenza che fa gli europei uguali tra loro e diversi dagli altri. L’europeità come l’anima che a partire da due sanguinosi conflitti mondiali siamo riusciti a edificare, costruendole intorno un corpo fatto di istituzioni, norme, trattati e diritti comuni. Impalpabile come ogni anima deve essere, però necessaria a dare vita a un corpo altrimenti mortale. Sarebbe perciò paradossale, sarebbe un delitto, anzi peggio, uno spreco imperdonabile, lasciare che la manifestazione di quanto siamo diventati capaci di soffrire insieme, uniti, costituisse il preambolo della distruzione di qualcosa che quell’unità simboleggia, rappresenta e concretizza.
Pensiamo piuttosto a dare piena applicazione al Trattato di Schengen, implementando al massimo livello il rafforzamento delle frontiere esterne allo spazio Schengen, integrando maggiormente le banche dati delle forze di polizia e rendendo più facile e ordinaria la loro collaborazione. Facciamo di Schengen non l’alibi della nostra debolezza o il punto vulnerabile della “fortezza Europa” ma invece l’architrave principale della casa comune europea, dalla cui tenuta e dal cui successo possano trarre ispirazione e alimento la realizzazione, oggi, della sicurezza europea e, domani, della difesa europea. Come i due milioni di nostri concittadini europei in marcia per le strade di Parigi ci hanno sobriamente ricordato, oggi più che mai l’Europa ha bisogno di scelte fondate sul coraggio e sulla speranza e non sulla paura e sulla disperazione. Chiediamo allora con forza che queste classi dirigenti europee, nelle loro decisioni concrete, si dimostrino almeno per una volta all’altezza dei nostri popoli, della grandezza tragica del nostro passato e della speranza di un futuro in cui l’Europa continui a essere qualcuno prima ancora che a contare qualcosa.