la Repubblica, 13 gennaio 2015
Stefano Cucchi è stato pestato ma non si sa da chi. Dopo la sentenza che ha assolto medici e agenti penitenziari, i giudici riaprono il caso per trovare i veri colpevoli
«La sentenza è chiara nel dire che Stefano Cucchi quelle fratture non se le è procurato da solo o accidentalmente. Il che vuole dire che qualcuno lo ha picchiato o forse spinto, ma quel qualcuno non sedeva davanti ai miei giudici». Luciano Panzani da quasi sei mesi guida la Corte d’Appello di Roma. Fu lui il giorno dopo la discussa sentenza di assoluzione di secondo grado del processo Cucchi a prendere le difese del suo collegio, dicendo no alle gogne mediatiche e spiegando che non c’erano elementi per condannare gli imputati. Cosa che oggi, motivazioni alla mano, può ribadire con più forza ancora.
Presidente, se è vero che qualcuno lo ha picchiato, è anche vero che oggi, dopo cinque anni di processo, ancora non c’è un colpevole.
«Ci tengo a precisare che io non ero nel collegio e che quindi parlo per quello che anche io ho letto nelle motivazioni. La prima cosa da precisare è che questa è un’assoluzione per insufficienza di prove. Il che vuole dire che non c’erano elementi sufficienti per ritenere gli imputati colpevoli di un reato che, però, c’è stato e che ha causato la morte di Stefano Cucchi».
Quindi qualcuno lo ha ucciso di botte?
«Quello che capisco dalla sentenza è che quel ragazzo è stato picchiato o quantomeno è caduto per una spinta. I giudici d’appello sono categorici nell’escludere che le ferite che aveva potessero essere accidentali o che potesse essersele fatte da solo. Non hanno dubbi sul fatto che qualcuno gliele abbia procurate. Ed è successo dopo il suo arresto. Questo dice la sentenza».
Eppure, ad oggi non ci sono colpevoli. Vuole dire che la Corte d’Assise d’Appello ha trovato lacune nella ricostruzione della procura?
«Il pubblico ministero ha ritenuto attendibile la ricostruzione di Samura Yaya che collocava il pestaggio nelle aule del tribunale e che individuava negli agenti della polizia penitenziaria i responsabili. Per l’accusa quello è stato un passaggio fondamentale. I miei colleghi, invece, non hanno avuto la stessa impressione, per loro il testimone non era affidabile. Questa divergenza ha condizionato il processo. Perché, accertato che Stefano Cucchi è stato picchiato, o lo ha fatto Tizio o lo ha fatto Caio. E per noi non è stato Tizio».
Presidente, voi avete disposto la trasmissione della sentenza alla procura della Re- pubblica.
«Sì, consigliando di valutare la possibilità di svolgere altre indagini nei confronti di coloro che fino ad oggi non sono stati indagati».
Quindi i carabinieri.
«Io non ho elementi per dire chi sia stato. Siamo sempre in una fase eventuale. Peraltro, per quanto riguarda gli agenti della polizia penitenziaria, la sentenza di secondo grado conferma quella della Corte d’Assise: erano già stati assolti in primo grado».
I giudici sembrano abbastanza convinti circa la responsabilità dei militari. Nelle motivazioni si dice che testualmente che «non può essere definita astratta l’ipotesi secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia».
«Appunto, come si dice, è un’ipotesi. Alla quale bisogna lavorare».
E ora la procura della Repubblica che può fare?
«Noi abbiamo dato delle indicazioni al pubblico ministero perché faccia altre indagini, perché vada più a fondo su altre posizioni. Ma la scelta è della Procura della Repubblica, sono loro i titolari dell’azione penale. Non sono obbligati a procedere se ritengono di avere già fatto tutti gli accertamenti necessari sui militari che lo hanno arrestato».
Presidente, la sentenza di appello ha assolto anche i medici e gli infermieri che, invece, erano stati condannati in primo grado.
«I giudici non sono riusciti a raggiungere una certezza sulle cause della morte. Questo è il punto cruciale. E quindi, anche a voler riconoscere che coloro che hanno avuto in cura Stefano Cucchi abbiano tenuto comportamenti caratterizzati da negligenza e imperizia, non sono riusciti ad arrivare a un’affermazione di responsabilità: dalla mancanza di certezza sulle cause della morte non può che derivare il dubbio sulla esistenza del nesso di causalità tra le loro condotte e l’evento. E, quindi, la conseguenza non poteva essere che l’assoluzione».