Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2015
I protagonisti politici della partita sul Quirinale non sono in Parlamento. Renzi, Berlusconi, Grillo, Salvini, nessuno di loro è “dentro” e tutti dovranno gestire le votazioni da “fuori”. Sarà un vantaggio o no?
Questa volta i protagonisti politici della partita sul Quirinale non sono in Parlamento. Renzi, Berlusconi, Grillo, Salvini, nessuno di loro è “dentro” e tutti dovranno gestire le votazioni da “fuori”.
Nel 2013 sia Pierluigi Bersani, allora segretario del Pd, che Silvio Berlusconi, leader del Pdl, erano il primo alla Camera, il secondo al Senato. Erano quindi pienamente dentro la partita, sono stati tra i grandi elettori del capo dello Stato, hanno gestito direttamente i gruppi parlamentari e Bersani ne è stato travolto. Se quasi due anni fa l’unico leader a dirigere da fuori il suo gruppo era Beppe Grillo, questa volta saranno tutti e quattro i principali capi partito a stare fuori dal Parlamento. Matteo Renzi non è un parlamentare, nemmeno Grillo, neppure Salvini (che è eurodeputato) e Berlusconi è decaduto da senatore per effetto di una sentenza e della legge Severino. Sarà un vantaggio o no?
Difficile dirlo visto il precedente Bersani: era nel gruppo e girava tra i banchi del Pd ma il “tradimento” è maturato lo stesso nonostante la sua presenza. Il problema fu che non aveva capito quale era lo schema politico più gradito al Parlamento e ne propose due, entrambi rifiutati. Sia Franco Marini che Romano Prodi prefiguravano scenari senza averne numeri: o un incarico a Bersani o probabili nuove elezioni. Ma la maggioranza parlamentare invece si era orientata per un bis delle larghe intese. E Giorgio Napolitano apriva la strada a quella opzione e infatti ottenne 738 voti a favore.
Il punto non è quindi l’essere dentro-o-fuori ma, come è sempre stato, capire quale schema politico è più gradito al Parlamento e trovare una candidatura coerente. Qui matura il rapporto tra leader e Parlamento, non tanto sull’essere tra i grandi elettori o no. Anche adesso come nel 2013 non è gradita l’opzione del voto anticipato. Ma – a differenza di due anni fa – non ci sono neppure le condizioni per un nuovo Governo di larghe intese a guida diversa da Renzi. La minoranza Pd e quella di Berlusconi sono tentate dal colpo di teatro di imporre un nome contro Renzi che lo condizioni senza farlo fuori. Una manovra da prima repubblica, ma senza essere più nella prima repubblica.
Quello che manca sono partiti strutturati, sponde esterne forti e soprattutto correnti e minoranze compatte e organizzate. Per eleggere un capo dello Stato contro un presidente del Consiglio, servirebbe la Dc di una volta, il Pci di una volta: partiti solidi che in manovre tanto spericolate non portano il Parlamento al suicidio ma mirano – chirurgicamente – alla poltrona del premier. L’opposizione nel Pd invece è divisa in almeno tre componenti, quella di Forza Italia in due o forse di più, anche i grillini non sono più quel gruppo compatto della primavera di due anni fa.
Insomma, una manovra dei parlamentari contro il premier non è possibile senza inevitabili contraccolpi sulla legislatura. E senza infilarsi in uno scenario di caos che nessuno oggi avrebbe la forza di controllare come accadeva invece con i capi corrente della Dc. Dare un colpo a Renzi mette il Parlamento a rischio. Ma anche Renzi – da fuori – non potrà imporre un nome contro le Camere. Il futuro presidente sarà in un punto di incontro – e non di scontro – tra i leader e il Parlamento. Né un uomo di Renzi, né contro di lui.