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 2015  gennaio 12 Lunedì calendario

Nenni, Fanfani, Andreotti, D’Alema. Tutti gli uomini forti che non sono riusciti a salire al Colle

I grandi solisti ci sono riusciti. Ma i direttori d’orchestra mai, come se una legge misteriosa, un comandamento segreto, sbarrasse la strada ai leader. Perché nessun segretario di un grande partito è riuscito a diventare Presidente, in settant’anni di Repubblica. Contro di loro, ha sempre giocato la vecchia paura dell’“uomo forte”. Di questa paura, figlia del timore di un inciampo precoce della giovane democrazia repubblicana, i primi a farne le spese sono stati gli “uomini forti” del partito più forte: la Democrazia cristiana.
A cominciare da Amintore Fanfani. Dalla politica, il grande aretino aveva avuto molto: era stato sei volte presidente del Consiglio, cinque volte presidente del Senato, due volte segretario della Dc, undici volte ministro. Aveva dimostrato di essere, come diceva Dossetti, un uomo “nato sotto il segno del comando”. Ma al Quirinale non ci arrivò mai: erano in troppi a temerlo. Nel 1971, quando fu eletto Leone, era lui il candidato ufficiale della Dc. «In quel momento – raccontava Giulio Andreotti – io ero il capogruppo dc alla Camera, e gli dissi per tempo: guarda che io ho confessato i nostri e stavolta il gruppo dovrebbe essere compatto. Però socialisti e comunisti non ti vogliono, me lo hanno detto chiaramente. A quelli ci penso io, rispose Fanfani». E invece andò a sbattere contro un muro, rafforzato dalla campagna del “manifesto”, che andò a scovare in una emeroteca gli scritti giovanili del Professore e cominciò a pubblicarli in una rubrica (“Antologia fanfaniana”) dal primo giorno delle votazioni. «Fanfani 30 anni fa esaltava il regime fascista» titolò in prima pagina. Seguivano citazioni del giovane Amintore che difendeva il superamento corporativo di un Parlamento eletto «da un ammasso indifferenziato di individui eterogenei», o delle sue filippiche contro il divorzio, «che precipita alla rovina le nazioni». E quando, dopo l’undicesimo scrutinio a vuoto, Fanfani si arrese ai franchi tiratori, il giornale titolò a tutta pagina: «Fuori uno».
Sette anni dopo, toccò a Ugo La Malfa. Dopo le dimissioni di Leone, molti dc preferivano lui a Pertini: era un fedele alleato e non era mai stato sospettato di debolezza verso il Pci. «Ecco l’uomo!» dichiarò all’inizio della partita Franco Evangelisti. «Un presidente come La Malfa. Un padre della Repubblica. La Malfa è uno dei candidati nostri». Fu Bettino Craxi, però, a mettere il veto, ricordando il no lamalfiano a Nenni del 1971. «Nel Psi non c’è mai stata unanimità su niente – annunciò, sarcastico, Giacomo Mancini – ma su La Malfa c’è: non lo vuole nessuno». E La Malfa, rassegnandosi, forse si pentì di aver preferito Leone a Nenni, sette anni prima.
Per Nenni quella era stata la seconda sconfitta. La prima volta, quando era stato eletto Saragat, lui sapeva perfettamente di essere solo un candidato di bandiera. «Stasera è sbucato il mio nome nella corsa al Quirinale. Naturalmente non sarò eletto» annotò sul suo diario il 21 dicembre 1964. Quella volta vinse il segretario dei socialdemocratici. Nenni, abbracciandolo, gli aveva ceduto il passo. Ma sette anni dopo i compagni del Psdi non ricambiarono la cortesia, e il leader socialista – che al Quirinale aveva cominciato a credere – ci rimase malissimo: «Io non ho parlato con nessuno, non ho cercato nessuno, non ho telefonato a nessuno. In casi simili non c’è che una cosa da fare: chiudersi in se stessi». E quando, il giorno dopo, venne eletto Leone, lui scrisse sul diario una sola parola: “Finito”.
Ma forse il vero grande sconfitto di questa partita che si gioca ogni sette anni si chiama Giulio Andreotti. Sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro, Andreotti contava solo tre caselle vuote nella sua collezione di poltrone: la segreteria della Dc, la presidenza di una Camera e il Quirinale. Ce l’aveva quasi fatta, nel 1992. Francesco Cossiga si era dimesso in anticipo, e i due candidati in pole position erano lui e Forlani. «Pochi giorni prima delle votazioni – racconta Paolo Cirino Pomicino – io ebbi la fortuna di trovarmi da solo con tutti e due. E scherzando dissi: ragazzi, voi vi dovete mettere d’accordo. Andreotti rispose: “Paolo, se il candidato è Arnaldo, la mia candidatura non c’è”. E Forlani ripetè: “No, se il candidato è Giulio, la mia candidatura non c’è”. Nel nostro linguaggio, voleva dire che tutti e due si candidavano. Alla fine Forlani andò da Andreotti per dirgli che aveva deciso di appoggiarlo. Un’ora dopo, però, squillò il telefono. Sentii la voce di Enzo Scotti ed ebbi subito un brutto presentimento, perché lui è sempre stato l’annunciatore dei tradimenti democristiani. E infatti mi disse che i dorotei non volevano Andreotti ma Forlani. Mi dispiace, aggiunse, ma questa è la nostra decisione». Così Andreotti uscì di scena, mentre Forlani si avviava – ignaro di quello che lo aspettava – verso l’invisibile trappola dei franchi tiratori.
Romano Prodi è stato l’ultimo dei grandi sconfitti, due anni fa – colpito e affondato da quei 101 cecchini di cui ancora si cercano i nomi – eppure il leader del centrosinistra che è uscito di scena più clamorosamente si chiama Massimo D’Alema. Ai primi di maggio del 2006 sembrava fatta, per l’ex segretario dei Ds. Il suo partito, ovviamente, era con lui. Rosy Bindi era ottimista: “Arriveranno anche i voti della Casa delle Libertà”. Cossiga lo aveva messo nella sua terna di candidati, con Ciampi e Marini, e dal centro-destra arrivavano segnali di fumo inequivocabili. Prima i cento voti con il suo nome nella votazione per il presidente della Camera, poi il sorprendente endorsement del “Foglio”, che aveva titolato in prima pagina: «O D’Alema, o moriamo di pizzichi». Perfino il leghista Maroni si mostrava disponibile, ricordando il patto del “ribaltone”, «quando lui e Bossi mangiarono le sardine a casa di Buttiglione...». Tutti sapevano che quel nome non suscitava l’entusiasmo del leader della Margherita, Rutelli, e neppure dei Verdi di Pecoraro Scanio, ma l’unico che strillava era Marco Pannella: «D’Alema ‘sto cazzo!».
Alla fine comunque il centrosinistra aveva deciso per lui, e Romano Prodi era andato a Palazzo Chigi per dirlo a Berlusconi. A modo suo, si capisce. Dopo averlo ascoltato per un po’ senza sentirgli fare quel nome che stava su tutti i giornali, il Cavaliere lo aveva interrotto: «Quindi volete Massimo D’Alema?». E Prodi aveva risposto, scrisse quel giorno il cronista di Repubblica, «con un sorriso e una smorfia che volevano dire sì». «Bene, devo parlarne con i miei: vi farò sapere» aveva replicato Berlusconi senza entusiasmo.
Per vincere la freddezza del presidente ancora in carica, il “Foglio” pubblicò due giorni dopo un lungo articolo di Piero Fassino che doveva rassicurare il centro-destra, sottolineando il profilo istituzionale di quella scelta: «Io la metto così: la guerra è finita, perciò la candidatura di D’Alema al Quirinale deve essere il primo atto di una pace da costruire e non il primo di una guerra che continua». Lo stesso Fassino, mentre il giornale era ancora nelle edicole, andò insieme a Francesco Rutelli all’incontro decisivo con gli alleati del Cavaliere, Fini e Casini. «Mi comunicarono – ricorda oggi l’allora leader dei Ds – che loro non erano in grado di votare un candidato dall’identità politica così fortemente caratterizzata. A quel punto io posi una questione: noi non possiamo accettare una nuova conventio ad excludendum sul Quirinale. Risposta: ma la nostra obiezione vale solo per questo nome, non discutiamo affatto il diritto della sinistra di indicare il Presidente». Duecento chilometri più a Sud, a Napoli, Berlusconi stava intanto mettendo la sua pietra tombale sull’ipotesi di eleggere il Lìder Massimo: «Non può diventare presidente chi ha detto che porterà per sempre la falce e il martello incisi nel suo cuore».
Quella sera, quando il segretario riferì la risposta al candidato, arrivarono insieme alla stessa conclusione: la partita di D’Alema era finita, non si poteva andare a uno scontro frontale. Un’amara sconfitta personale era il prezzo da pagare per una storica vittoria politica: al Quirinale sarebbe andato, per la prima volta, un ex comunista: Giorgio Napolitano.