Il Messaggero, 12 gennaio 2015
Meglio non contare troppo sulla rivoluzione energetica Usa, quella del «fracking», della fratturazione delle rocce, che promette gas e petrolio a buon mercato per tutti, Italia compresa. Benefici immediati non ce ne saranno. Anzi, la dipendenza energetica dalla Russia rimarrà non solo inalterata, ma potrebbe addirittura aumentare. A sostenerlo è un dossier inviato a Palazzo Chigi dagli esperti dei servizi segreti
Meglio non contare troppo sulla rivoluzione energetica Usa, quella del «fracking», della fratturazione delle rocce, che promette gas e petrolio a buon mercato per tutti, Italia compresa. Benefici immediati non ce ne saranno. Anzi, la dipendenza energetica dalla Russia rimarrà non solo inalterata, ma potrebbe addirittura aumentare. A sostenerlo è un dossier inviato a Palazzo Chigi dagli esperti dei servizi segreti. Secondo l’analisi, che prende le mosse dalla crisi ucraina e dalla necessità di ridefinire i rapporti tra Italia e Russia, anche per il medio termine, la sostituzione degli approvvigionamenti energetici di gas e petrolio russi sono lo shale oil e lo shale gas americani, non è realizzabile.
Il fronte del gas, innanzitutto. La prima criticità riguarda la difficoltà di rendere liquido il cosiddetto gas scisto. Sulla costa americana non ci sono impianti di liquefazione. Certo, ci sono diversi progetti per costruirli, ma attualmente uno solo è in fase di realizzazione, quello di Cheniere Energy a Huston, in Texas. Un problema speculare esiste sul versante italiano, dove invece a mancare sono i rigassificatori, impianti in grado di riportare allo stato gassoso il gas liquido importato. Qualcosa, in realtà, c’è. Come il rigassificatore off shore situato sulla costa di Livorno, in funzione da poco più di un anno. Il problema è che è fermo, perché fino ad ora nessun contratto di fornitura per rigassificare Gnl è stato stipulato. E comunque il rigassificatore di Livorno non sarebbe idoneo, da solo, a sostituire il gas importato dalla Russia, visto che la sua capacità massima è di 3,75 miliardi di metri cubi l’anno, contro un import di gas russo di 21 miliardi di metri cubi. L’incertezza sui tempi e sui costi dello shale gas, insomma, è grande. Lo conferma anche il fatto che Enel ha firmato con l’americana Cheniere Energy due contratti ventennali per l’acquisto di shale gas. Si tratta di un quantitativo limitato e che comunque sarà disponibile solo dal 2018.
I PROBLEMI CON IL GREGGIO
La dipendenza energetica dell’Italia dalla Russia di Vladimir Putin non riguarda soltanto il gas. C’è anche il petrolio. Il 19% del fabbisogno viene coperto dal greggio fornito da Mosca. Anche in questo caso, sostengono i servizi di intelligence, sostituire il petrolio russo con lo shale oil americano sarà tutt’altro che una passeggiata. Il problema è la compatibilità del greggio Usa con le raffinerie italiane, tarate per lavorare una qualità di greggio definita Ural, con un contenuto di zolfo dell’1,3%. Lo shale oil, invece, per poter essere trattato dalle raffinerie tradizionali, ha bisogno di aggiunte di idrogeno e della eliminazione delle impurità. Nel caso del petrolio, tuttavia, c’è anche un’altra peculiarità italiana, che potrebbe ritardare l’arrivo dello shale oil: la presenza crescente di alcune società russe produttrici di petrolio nel mercato nazionale della raffinazione, come Lukoil e Rosneft (entrate in Erg e Saras) e, in futuro, anche in quello della rigassificazione (Lukoil). Ciò, secondo l’analisi dei servizi, porterà a una crescente doppia dipendenza, non solo delle forniture, ma anche della raffinazione.
Al momento, comunque, secondo l’intelligence, per l’Italia, non ci sarebbe rischi di approvvigionamento. È pur vero che l’import di gas dalla Russia è diminuito del 20% rispetto agli anni precedenti. Per ora, tuttavia, la strada più economica per recuperare questo gap è approvvigionarsi tramite Transitgas, il gasdotto che fornisce gas olandese e norvegese. L’uso di Transitgas ha portato ad una crescita di 3 euro/Mhw tra il prezzo spot sulla piattaforma nazionale del gas e quello della piattaforma di scambio del gas olandese e belga. Questi tre euro, insomma, sarebbero lo spread da pagare legato alla possibile interruzione degli approvvigionamenti tramite l’Ucraina. Un’interruzione che, comunque, oggi avrebbe un impatto molto più contenuto rispetto a quella del 2009, perché, spiegano gli esperti dei servizi, le reti europee sono divenute molto più interconnesse ed esiste la possibilità di accedere ad altri fornitori, come la Norvegia e i quattro gasdotti dal Nord Africa all’Europa. Anche l’addio al progetto South Stream non avrebbe ripercussioni.