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 2015  gennaio 12 Lunedì calendario

«Cercavano di farmi diventare un killer paziente ma quando salivo sul ring pensavo: ti faccio fuori». Tra 119 incontri, 103 successi, 70 ko, quattro figli, tre figlie e tre bancarotte, Roberto Duran racconta la sua vita e la boxe

Invecchiano anche i cattivi. Quando non possono più fare male. Gli si arrugginisce la ferocia. Soprattutto negli occhi. Roberto Duran sul ring era un mostro in libertà. Rissoso, violento, terribile. Faccia da indio, ghiaccio nello sguardo. Lo chiamavano Manos de Piedra. E all’inizio anche il killer di Panama o el dentista. Per come ti faceva a pezzi e ti cavava il cuore. 30 anni di bastonate: 119 incontri, 103 successi, 70 ko. Carriera infinita. L’ultimo round nel 2001. Unico al mondo ad aver combattuto per cinque decenni. Per The Ring il peso leggero più forte di tutti i tempi. Quattro volte campione del mondo in quattro diverse categorie. Quando chiesero a Joe Frazier chi gli ricordasse, rispose: «Charlie Manson». Stessa barbara voglia omicida. Per altri assomigliava al diavolo, a un figlio di Satana: occhi e capelli neri come il carbone. Oggi Duran è cambiato nell’aspetto: faccia tonda, niente più barba. Ha 63 anni, pesa 83 chili, dopo aver subito lo stesso intervento di riduzione dell’intestino di Maradona. Ha vinto e sperperato: quattro figli, tre figlie, tre volte in bancarotta (per saperne di più il libro di Christian Giudice «Mani di Pietra» edito da Castelvecchi»). Sul ring o picchiava o se ne andava. Servizio completo. Un avversario: «In dieci minuti ti faceva invecchiare di dieci anni». Il periodo finale è stato da Elvis Presley imbolsito. Ma quello buono da leggenda brutale. Come quella frase, da secolo breve, rimasta alla storia: «No màs».
L’inizio della sua carriera è stato insolito.
«C’era una festa, eravamo tutti bevuti, un tipo scommise: ti do 100 dollari e due bottiglie di whisky se stendi un cavallo. Era un potrillo, un pony. Mi dissero che dovevo colpire l’animale dietro le orecchie. Lo feci, il cavallo cadde a terra, mi ruppi un dito. Venivo da El Chorrillo, cittadina di pescatori ad ovest di Panama. A scuola mi avevano espulso perché facevo sempre a botte».
A bordo ring le madri dei suoi avversari svenivano.
«Zio rompeva le noci di cocco con un pugno, nonna finì in gabbia per aver steso il sindaco di Guarare, la notte in cui nacqui andò al bar a cercare nonno, che stava con una puta, e lo sdraiò con un destro. Mio bisnonno con la testa aperta in due da un machete strisciò fino alla sua fattoria prima di morire. Siamo fatti così, il dolore non c’impressiona. Nel mio primo match ho buttato giù tre volte l’avversario, ma ho perso, perché suo padre era l’arbitro».
In Nicaragua picchiò una donna che era salita sul ring.
«Pedro Mendoza a Managua era l’idolo del paese. L’ho messo ko in un solo round. Sua moglie però aveva da ridire. Dio, com’era molesta. L’ho allontanata dal quadrato con il dorso della mano».
Era un destro.
«Finezze. Sono finito in prigione a 15 anni. Stavo ballando con la mia ragazza quando mi hanno aggredito in cinque. Li ho stesi tutti. Sono passato professionista nel ‘68. Con un ko. Mandai De Leon dritto al Pronto Soccorso. Non boxò più».
Spedì all’ospedale anche lo scozzese Ken Buchanan.
«Nel ’72. Mi disse: non ti dimenticherò mai, ti penserò ogni volta che vado a pisciare. Alla tredicesima ripresa l’avevo colpito lì e gli avevo distrutto una vena nel testicolo destro. Sarà anche stato un colpo basso, non voluto, ma se si fosse rialzato l’avrei massacrato ancora di più».
Pestò pure l’americano Lampkin.
«La sua testa per terra fece un brutto suono. Perse conoscenza. Gli urlai: la prossima volta ti mando all’obitorio».
Lampkin non si riprese e per sei mesi non riuscì a camminare.
«Se non lo fai tu, te lo fanno gli altri. Venivo dalla strada, sapevo solo sopravvivere. Combatti per non morire. La boxe è così. Può umiliare. Devi avere il corazon. Se non vi piace, evitatela».
Un po’ di pietà non guasta.
«Quando stai massacrando uno di botte non ti stanchi».Un suo sparring disse che a lei non dispiaceva far male.«Cosa devo rispondere? Gli ho rotto il naso a quello. Insisteva che allenarsi con me è come farlo con un animale. Una sera ero a ballare, ho difeso un amico, sono arrivati quattro poliziotti, ho picchiato pure loro. Non ne fanno più come me».
Per fortuna?
«Non so. Cercavo di rompere gli avversari. Non ragionavo, né mi risparmiavo. Da ragazzo dopo l’allenamento andavo a lustrare scarpe per sette centesimi che portavo a casa. Raschiavo la pentola per mangiare la crosta del riso che faceva mamma, tanto avevo fame. Però non è vero che avrei detto: metterei ko anche Dio. Non sono tipo da pagliacciata. In tanti fanno il pugile, io lo ero».
Sul ring ringhiava e sogghignava.
«Contro il portoricano Esteban de Jesus ho combattuto tre volte. La prima volta ho perso. In 32 incontri non mi era mai capitato. L’ho presa male. Mi giravano, volevo vendicarmi, non vedevo l’ora di massacrarlo. È stata una faida più che una trilogia:’ 72, ‘74, ‘78. La prima sconfitta non potevo cancellarla, ma de Jesus sì».
Però l’ha abbracciato e baciato in ospedale.
«Nell’89 era alla fine. Molto drogato, eroinomane, molto malato. Ma gli uomini coraggiosi vanno onorati. Soprattutto quelli che combattono, che non si tirano indietro. Era un guerriero, l’ho pestato, gli ho tolto ogni orgoglio, ma lo ho anche ammirato».
Aveva l’Aids.
«Non mi frega di cosa fosse malato. Era solo un grande uomo, ridotto male. Era stato anche in carcere per omicidio. L’ho preso dal letto, l’ho sollevato, l’ho stretto a me. Paura del contagio? L’onore merita rispetto».
Ma se alla moglie di Leonard, incontrata per strada, disse: ucciderò tuo marito.
«È un’altra storia. Era il primo incontro. Eravamo a Montreal nell’80. Leonard era il cocco d’America, cresciuto con il cucchiaio d’oro in bocca, e con gli occhi da cerbiatto. Di soprannome Sugar. Zucchero. Non li sopporto gli eroi yankee, i privilegiati, i carini, giovani, ricchi. Juanita, sua moglie, svenne, quando gli mollai un gancio sinistro alla gola. Dispiacermi? Per niente. Ray Leonard era una mierda».
Insultò tutta la sua famiglia: anche la madre e i figli.
«Da noi si parla duro. A quei tempi avevo 29 anni e giravo per Panama con un leone, Walla, legato con una cinghia al braccio. Odiavo tutto quello rappresentava Leonard: il ragazzino intelligente, nato ieri, che non voleva nemmeno passare per nero, che valutava attentamente ogni avversario. Io ero solo un picchiatore selvaggio, anche se cercavano di farmi diventare un killer paziente. Quando salivo sul ring pensavo: ti faccio fuori. Il pubblico mi apprezzava. Il Canada tifava per me, non per il golden boy che aveva vinto l’oro olimpico lì a Montreal nel ’76 e che sembrava un attore tanto aveva modi educati e seducenti».
Quel successo le diede la gloria.
«Avevo battuto un eroe, quindi ero il migliore, e anche campione del mondo. Noi dell’America Latina non eravamo affatto male. Quando tornai a Panama trovai 700 mila persone a portarmi in trionfo. Mia mamma ricordò a un reporter quanto fosse stata dura la nostra vita e che da piccolo le avevo detto: non preoccuparti, quando sarò grande tutto cambierà. Non ero il solo a pensare che Leonard fosse panna montata e non valesse cinque centesimi. In più aveva commesso l’errore di spalmarsi addosso troppa vaselina, in modo che i mie pugni scivolassero. Non aveva capito che quando si fa a cazzotti non si usano trucchi. Al suono della campana finale venne verso di me per stringermi la mano, ma lo spinsi via. E poi mi feci fotografare con una mazzetta di banconote tra le dita. Mentre lui devastato andò con la famiglia alle Hawaii. Nessuno di loro lo aveva mai visto perdere».
Perché non ci sono più pugili alla Duran?
«Io non ho mai schivato nulla. E sempre dando tutto. Ho affrontato tutti i più forti: da Hagler a Hearns, da Benitez a Barkley. Bisogna averla la voglia di ululare. Appena suonava il gong mi veniva la bava. Anche se ho fatto una parte come sparring partner in Rocky II e ho conosciuto De Niro quando girava Toro Scatenato, la boxe è sangue, non è quella dei film. Ogni tanto bisogna anche ricordarselo».
Nella rivincita con Leonard non fu lo stesso.
«Avevo fatto troppo feste. Bevevo e ingrassavo. Avevo sempre fame. In più erano passati solo cinque mesi. Tralasciai il lavoro in palestra, ero senza allenatore e manager. Ma mi davano 10 milioni di dollari. Dopo il peso mi mangiai due uova, porridge di mais, pesche, toast, due bistecche con osso, piselli, patate e pollo fritto. Tutto innaffiato da cinque bicchieri di aranciata. Leonard sul ring mi stuzzicò, tirò fuori la lingua, fece il buffone».
E lei mimò una masturbazione.
«Avevo i crampi allo stomaco per l’indigestione. Troppo cibo. Dopo mi venne da piangere dal dolore, mi portarono all’ospedale. All’ottava ripresa avevo perso ogni interesse. Girai la schiena e me ne andai».
Con quel «No Màs» che restò alla storia.
«Non sapevo di aver inventato un modo di dire. Una frase universale per chiunque voglia dire basta. In realtà mi pareva di aver detto: no quiero pelear con el payaso. Non voglio combattere con questo pagliaccio. Leonard non mi affrontava e io non avevo intenzione di inseguirlo».
Duran che molla fu uno choc.
«Ho solo mandato tutti al diavolo. Ho seguito l’istinto. Un vero uomo si comporta così, invece mi hanno dato del traditore. Ma io non ero lì per trastullarmi e sapevo ci sarebbe stato un altro incontro. Tornato a Panama non sono uscito di casa per un mese. La gente sparlava. Solo allora ho capito che ero stato frainteso».
Cosa ne pensa da macho delle donne pugili?
«Eroine. Mi piacciono. Le donne sono generose. Non si ritirano».