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 2015  gennaio 12 Lunedì calendario

Da quando il prezzo del barile è sceso a 50 dollari è possibile che un colosso come Bp possa essere acquistato e smembrato dalla Exxon o dalla Shell. L’americana ha in cassa 350 miliardi di dollari in azioni proprie e l’Europa nel mirino. Gli inglesi prima preda. Mentre per Eni e Total...

Fino a poche settimane fa pensare che un colosso come Bp potesse essere acquistato e smembrato dalla Exxon e dalla Shell sarebbe stata pura fantascienza. Meglio: petro-fantascienza. Invece da quando il prezzo del barile è sceso a 50 dollari (e qualcuno si aspetta che il brent arrivi fino a 40) persino un mostro sacro come il glorioso gruppo britannico è entrato nel tritacarne delle indiscrezioni sulle possibili operazioni di merger and acquisitions che potrebbero sconvolgere il panorama del settore petrolifero.
Un po’ azzardato? Mica tanto se si dà retta a Wood MacKenzie, società specializzata nell’analisi dell’oil&gas: «Un consolidamento corporate su larga scala potrebbe essere più vicino di quanto lo sia mai stato dalla fine degli anni ‘90», ha scritto pochi giorni fa. In quel periodo, ricordiamolo, Exxon si comprò Mobil e poco dopo si sposarono Chevron e Texaco. Anche l’Eni, se si rimane nel cortile di casa, acquistò British Borneo e poi Lasmo. Così, tornando all’oggi, la proposta di acquisizione da 13 miliardi di dollari della canadese Talisman da parte della spagnola Repsol potrebbe essere solo l’antipasto.
Tagli in vista
Che cosa stia accadendo contribuisce a spiegarlo Stefano Cao, ex oilman Eni e ex-ceo di Sintonia, che ben conosce il mercato petrolifero e quello finanziario: «Il brusco calo dei prezzi ha colto l’industria nel mezzo di un massiccio sforzo di investimenti esplorativi, cresciuti del 70% in 5 anni anche se poi gli obiettivi di crescita produttiva non sempre sono stati centrati. Ora questi investimenti dovranno essere tagliati e concentrati solo sui progetti di maggior valore aggiunto. In più i manager si dovranno focalizzare su maggiore efficienza, ottimizzazione della struttura dei costi e alleggerimento di business meno redditizi, come mid e downstream». Se il prezzo del barile dovesse rimanere a livelli bassi per un lungo periodo, parecchie compagnie non sarebbero più in grado di reggere lo «stress» finanziario a cui sono sottoposte.
Qualche numero aiuta a capire. I tagli degli investimenti sono già iniziati: 9 miliardi di dollari in meno annunciati nelle ultime settimane 2014. Sempre secondo Wood Mackenzie, per mantenere lo stesso livello di indebitamento del 2014 (con un barile a 60 dollari), le compagnie petrolifere dovrebbero abbattere gli investimenti del 37%.
Ma è chiaro che ridimensionare gli investimenti potrebbe non bastare: l’ennesima simulazione mostra che a 70 dollari al barile il 95% delle compagnie non sarebbe già più in grado di coprire tutti gli impegni finanziari: costi di sviluppo dei giacimenti, spese generali, investimenti, dividendi e programmi di riacquisto dei propri titoli.
Insomma, ancora dai tre ai sei mesi di questa danza finanziaria e le vendite forzate potrebbero iniziare a fioccare, facendo nascere un vero proprio «mercato dei compratori». Da una parte le compagnie medie e le indipendenti americane che rischiano di andare sott’acqua, dall’altra le majors, che non potranno comunque sottovalutare la situazione, sia sul lato dei costi sia su quello del rinnovamento costante delle riserve di petrolio e gas, a rischio se si tagliano gli investimenti.
Mire texane
In un mercato dei compratori sarebbero i pesci più grossi a farla da padroni. La Exxon, ad esempio, secondo gli analisti di Oppenheimer «potrebbe in teoria comprare qualunque suo stretto concorrente», visto che ha in cassa circa 350 miliardi di dollari in azioni proprie, il 90% del proprio valore di mercato. E non a caso le voci hanno riguardato la compagnia texana, che potrebbe dividersi con Shell le attività Bp, prendendosi quelle americane e lasciando quelle europee alla seconda. Per Bp sarebbe il termine del difficile percorso iniziato nel 2010 dopo il disastro del giacimento Macondo nel Golfo del Messico. Ma si vedrà.
Di fatto però, più che alle mega fusioni, le majors potrebbero puntare a sfruttare in modo opportunistico le occasioni di mercato, provando a consolidarsi in settori specifici (la stessa Exxon ci aveva provato nel 2009 con il gas di Xto, con risultati discutibili). Oggetto del desiderio potrebbero così diventare l’Anadarko (acque profonde), British Gas (gas naturale liquefatto), Tullow (esplorazione), Pioneer (tight oil). Non andrebbero poi perse di vista le cosiddette Noc’s, le «national oil companies». Soprattutto le tre big cinesi (Cnpc, Sinopec e Cnooc) per le quali, commenta ancora Wood MacKenzie «la domanda è quando (e non se) riemergeranno come compratori».
E l’Eni? Che cosa potrebbe accadere alla compagnia di Stato? L’attesa per la strategy presentation del prossimo 13 febbraio ovviamente sale, e i timori riguardano nuovi possibili tagli agli investimenti e, questione più delicata, al dividendo. Per il Cane a sei zampe, in teoria, resta valido come in passato il teorema della complementarietà geografica con la francese Total, malgrado per entrambi il settore downstream costituisca una zavorra. Peccato però che Total abbia una capitalizzazione doppia (97 miliardi di euro contro 49) rispetto all’Eni. E che possibili intese siano soggette al placet dell’Eliseo e di Palazzo Chigi.