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 2015  gennaio 09 Venerdì calendario

«Cucino nella mia mente. Immagino le cose e le scrivo. Poi con i miei colleghi effettuo le prime prove di cottura, assaggio quello che abbiamo preparato e decido se funziona o no. Creo tutto dentro di me». Parla Pierre Hermé, il pasticcere di Francia. Che però è sempre a dieta

«Sono sempre a dieta, io. E sa quale regime seguo? Un macaron al giorno: meglio di niente...». Pierre Hermé fissa il vassoietto schierato come un plotone d’esecuzione sul quale sono adagiate le ultime creazioni che hanno nomi sensuali come «Infinitamente caramello» o «Giardino misterioso», e si illumina a suo modo. Cioè con un sorriso stiracchiato. Il massimo dell’emotività che si concede questo signore nato 53 anni fa a Colmar Haut-Rhin, paesino dell’Alsazia. Regione che ha dato i natali, tra gli altri, anche alla regina delle marmellate Christine Ferber. Lui, molto semplicemente, è stato definito il Picasso della pasticceria. Decorato Cavaliere delle arti. Legion d’onore da Jacques Chirac nel 2007. Più che un personaggio, una holding meta-simbolica. Basta entrare nel suo quartier generale di rue Fortuny, nel 17esimo arrondissement. Le sue iniziali sono ovunque, trasformate in poltrona, vaso, quadri pop. Il classico caso in cui il personaggio ha superato l’originale. L’Enigma Hermé. Che sia a dieta il Pasticciere di Francia, il re dei macarons, sembra quasi uno scherzo del destino. Ma soprattutto appare davvero difficile da sostenere per un uomo che nel corso dell’intervista annuserà pepe, frutta e spezie ogni volta come fosse l’ultima. E che oltre all’acqua, assaggerà solo la sua cioccolata fondente purissima conservata in un barattolo sulla mensola del camino. Viso rubizzo e sornione, camicia candida strizzata in un jeans, Monsieur Hermé è uomo difficile da decifrare. Del lavoro ha fatto, come ammette lui stesso, «una ragione, felice, di vita». E i sentimenti? In un cassetto. D’altronde il suo motto è: «Meno sai di me, meglio è». Difficile, quasi impossibile, fargli dire qualcosa ad esempio sulla sua ex moglie, Fréderick Grasser-Hermé, più anziana di lui, food writer di successo (tra i suoi oltre 20 libri, anche uno con Alain Ducasse). Quattordici anni di vita insieme. A detta di Jeffrey Steingarten, food writer e amico di lunga data dei Grasser-Hermé, a casa cucinava sempre lei («piatti semplici, come agnello con albicocche, o costolette di maiale, ma superbi») perché avrebbe «un palato migliore di Pierre: lui mangia troppo velocemente». Hermé replica laconico: «Il miglior palato è il mio».
Gli inizi e i sapori
«Mio padre era pasticciere e fornaio. Il cioccolato al latte l’ho scoperto grazie a lui, quando preparava i coniglietti di Pasqua. È stato naturale per me passare dalla pasticceria al cioccolato. In Francia, quando studiavo per diventare uno chef pasticciere, ho imparato a lavorarlo. È un’ingrediente che offre le stesse opportunità creative degli altri rami della cucina». Apprendistato a Parigi a 14 anni con Lenotre, a 24 passa con Fauchon, dove rimane 11 anni. Nel 1997 con Ladurée, ora suo grande competitor per i macarons. Nel 1998 lancia una sua linea in Giappone, dove tuttora è venerato come un Dio. A Parigi apre nel 2002, al 72 di rue Bonaparte, Saint Germain des Prés, la prima di una lunga serie di boutique. Fama, successo, eppure tra i 100 personaggi più influenti del food, scelti da Time l’anno scorso, lui non c’era. Anzi, non c’era nessun pasticciere: «Sono due lavori diversi. Sì, i cuochi hanno maggiore visibilità, ma qualcosa sta cambiando. Anche in Francia. Bisogna aspettare». Le sue creazioni nascono da suggestioni. E sapori. Come quelli che ama degustare a colazione: «Tè verde sencha, frutta, yogurt, pane e burro». O scoprire per la strada: «Un mazzo di rose può ispirare una torta al mascarpone. Un viaggio in Sicilia, con le sue arance, l’ultima collezione di macarons. Ci vuole poi passione per le eccellenze. Prendi il pepe: io uso solo quello Maricha, né bianco né nero, di una ditta di Verona. Il migliore al mondo, secondo me. La mia torta Miraflores, senza, sarebbe impossibile. Mi interessa la scoperta di sapori innovativi e differenti, infatti da sempre non credo al comfort food».
Mai un piede in cucina
Eppure questo pasticciere, per certi versi maniacale, non mette mai piede in cucina. Pensa, disegna e prova tutto nel suo studio. «Cucino nella mia mente. Immagino le cose e poi le scrivo. In seguito con i miei colleghi effettuo le prime prove di cottura, assaggio quello che abbiamo preparato e decido se funziona o no. Creo tutto dentro di me». Al massimo, sale su nel laboratorio dove il suo staff sperimenta. Se non fosse diventato il pasticciere più famoso del mondo avrebbe fatto con piacere «il venditore di vini, perché amo il vino! Oppure sarei stato un bravissimo creatore di profumi». Proprio di vini Hermé fa collezione: «Ma mi piace berli con gli amici, non contemplarli». Amante della buona cucina, con l’ex moglie una sera d’estate del 1997 ha affrontato un lungo viaggio in macchina per andare a mangiare da El Bulli di Ferran Adrià. Le è piaciuto? «Si tratta di un’emozione, non ci vai mica per mangiare e basta. Però alla fine avevo ancora fame». Ma se gli si domanda quale sia il suo ricordo gastronomico più intenso, chiede: «Lei è italiana. Conosce un piccolo ristorante in costiera sorrentina, la Conca del sogno?». Certo... «Ecco, lì ho mangiato una cosa straordinaria: gli spaghetti con le zucchine! Potrei rifare ogni giorno mille chilometri pur di riassaggiare quel piatto». La memoria corre anche a un altro ricordo: «Con Fulvio Pierangelini nel suo ristorante (il Gambero rosso, oggi chiuso, ndr ): un pomeriggio passato a stappare bottiglie di Sassicaia. Ho mangiato il risotto più grandioso della mia vita».
Miti e desideri
Ma se Pierre Hermé è il miglior pasticciere del mondo, chi può competere con lui? Un italiano: «Iginio Massari. Ha un senso del gusto e una conoscenza tecnologica strepitose». Altri nomi? «Carlo Cracco, Annie Feolde, Massimiliano Alajmo, Alfonso Iaccarino», tanto per rimanere in casa. Ma è sui giovani che Hermé conta, per questo si spende nei corsi di formazione: «Trasmettere alle nuove generazioni è fondamentale. Noi abbiamo una scuola a Parigi, ad esempio. E poi bisogna migliorare le condizioni di lavoro. Nelle cucine c’è molto maschilismo». Resta una domanda, quella fondamentale: «Come nascono i suoi macaron?». Hermé solleva (solo) un sopracciglio: «Dalle mie passioni. Ma se cerca un segreto... non ci provi. Non c’è». E poi, forse per sminuire la delusione, ti prende la mano, fissa il vassoietto con i macarons della collezione autunno-inverno, e chiede: «Mica va via senza averne assaggiato uno, vero?».