Corriere della Sera, 9 gennaio 2015
Martina e Alex. Quel «Ti amo» e quel «Mi manchi» detto con il labiale tra una gabbia e l’altra. I due s’incontrano alla prima udienza del processo, lei cerca di scagionare il compagno ma l’accusa non ci crede...
Prima di arrivare di fronte ai giudici si nasconde in un giaccone blu, cappuccio tirato sulla fronte, bavero alzato sulla bocca. Scoperti restano solo gli occhi, che guardano a terra. In aula si libera il volto. Martina Levato resta con i capelli lucidi e neri sciolti sulle spalle, a tratti un sorriso quasi eccitato, minuta, il maglione grigio a rigoni. Subito, con lo sguardo, cerca Alex, che sta nella «gabbia» dall’altra parte della stanza, seduto in jeans e felpa grigia, con un tutore alla spalla destra. Lei lo segue con gli occhi, ma lui all’inizio si rivolge altrove, parla attraverso le sbarre con i suoi avvocati. Martina con i legali non parla, sembra concentrata solo su di sé e all’agente della polizia penitenziaria, una donna, che le sta vicino e non conosce la storia, racconta: «Io e quel ragazzo lì ci amiamo, è successo quello che è successo. Ora mi spaventano i tempi lunghi del processo, magari sono anni. Aspetto un bambino, è suo. Quanto tempo dovrà passare perché ci ritroviamo...».
Poi inizia l’udienza. Il pubblico ministero, Marcello Musso, parla di «atteggiamento mafioso», perché la studentessa starebbe facendo di tutto per scagionare il suo compagno, che invece secondo l’accusa ha preso parte al «comune progetto criminoso» (un concorso che i legali Francesco Cieri e Jacopo Morandi proveranno a contestare). In aula parla il giudice. Passano i minuti. E Martina sembra seguire ancora mentalmente il filo che nella sua mente la lega ad Alexander. Solo muovendo le labbra, in modo marcato perché sia comprensibile oltre i sei, sette metri di distanza, più volte gli dice: «Ti amo». E Boettcher una volta, quasi di sfuggita, risponde: «Mi manchi».
Ecco, per capire il senso di questo muto scambio di parole, bisogna riallacciare la storia: Martina e Alexander si conoscono un anno e mezzo fa; iniziano una relazione, anche se lui è sposato da 7 anni; vengono arrestati tra il pomeriggio e la notte del 28 dicembre scorso. Passano 10 giorni nel carcere di San Vittore e si rivedono per la prima volta ieri mattina. La domanda è: se l’idea dell’agguato all’ex compagno di liceo di Martina è nata dentro la deriva psicotica che aveva preso la loro storia, il carcere e il processo sono riusciti a spezzare quel filo? Un filo che non era fatto soltanto di sentimenti, ma era invece invischiato in una dinamica psicologica con profondi tratti patologici: dare un taglio a questa catena significherebbe che Martina e Alexander stanno rientrando nella realtà, stanno comprendendo cosa significhi davvero distruggere per sempre la vita di un ragazzo innocente, della sua famiglia e, anche, delle loro famiglie.
Sarà materia, questo rapporto, di indagine da parte degli psichiatri. Il legale di Martina, Paola Bonelli, quasi certamente chiederà una perizia. L’estate scorsa la ragazza aveva tentato il suicidio, ingoiando pastiglie di «Tavor», perché soffriva la lontananza da Alexander; agli psichiatri del carcere ha raccontato di aver subito una violenza che non ha mai avuto il coraggio di confessare, se non quando ha incontrato per la seconda volta il presunto responsabile e lo ha ferito con un coltello («Mi ha aggredito alle parti intime» ha denunciato lui; «Ha cercato di abusare di me», ha controdenunciato lei).
Un passaggio chiave nel processo sarà quello di stabilire chi ha istigato chi, nel progetto dell’aggressione. Entrambe le famiglie, quella di Martina e quella di Alexander, hanno raccontato che i loro figli erano cambiati molto dall’inizio della relazione.
La madre di Alexander, ieri, ha atteso l’intera mattinata fuori dall’aula del tribunale, ha risposto con garbo ai giornalisti che l’hanno avvicinata, ha trattenuto il pianto a lungo pur di riuscire a dare un abbraccio di sfuggita al figlio che veniva portato fuori dalla polizia penitenziaria. I genitori di Martina, due insegnanti, sono invece rimasti a casa. Per evitare di vedere la loro figlia che si copriva il volto di fronte ai fotografi.