la Repubblica, 8 gennaio 2015
Il governo italiano va al braccio di ferro sui marò: «Latorre non deve ritornare a Delhi». Lunedì l’India deciderà se prolungare il permesso. Il ministro degli Esteri Gentiloni: «Ci aspettiamo una scelta umanitaria»
L’Italia si rimette alla clemenza della corte. Per non rispedire in India il fuciliere operato al cuore, il team legale della Farnesina ha formulato una richiesta in bianco alla Corte suprema che deciderà lunedì se – e quanto a lungo – concedere a Massimiliano Latorre di restarsene a casa per la riabilitazione. Eppure, mai come stavolta Roma è pronta al braccio di ferro: anche se nessuno lo dice ufficialmente, qualunque cosa decida la Corte suprema Massimiliano Latorre «difficilmente tornerà a Delhi», dicono fonti vicine a chi decide le strategie.
L’intervento subìto lunedì mattina al Policlinico San Donato per la rimozione di un insidioso difetto congenito, il forame ovale pervio, è andato bene. Il fuciliere è in netta ripresa, ma ci vorranno settimane di terapia a casa e mesi di riabilitazione con controlli in ospedale prima di tornare in perfette condizioni fisiche. Alla mezzanotte di lunedì, però, scadrà la licenza concessa a settembre, e già una volta la Corte aveva bocciato la richiesta italiana di prolungare la permanenza di Latorre in Italia. A Delhi, le opposizioni sono pronte a fare quadrato per mettere in difficoltà il governo, se non si schierasse contro la richiesta italiana. «Le condizioni di salute di Massimiliano Latorre – dice il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni – sono sotto gli occhi di tutti. Ci sono tutte le ragioni per proporre una nuova petizione. Dal punto di vista umanitario ci aspettiamo una risposta dalla Corte suprema indiana. Per il resto, continuiamo il dialogo con le autorità indiane che finora non ha dato i risultati che ci aspettavamo: per questa ragione, prima di Natale, abbiamo richiamato il nostro ambasciatore per le consultazioni».
Per rendere più difficile una bocciatura, l’appello messo a punto dal team legale che difende i marò è stato scritto nella forma più docile possibile: presentando le cartelle cliniche di Latorre si chiede di estendere la sua licenza concessagli per le cure dopo l’ischemia che lo ha colpito a Delhi, ma non si fissano date né si accenna in alcun modo alla vicenda processuale dei due marò, che l’Italia rifiuta contestando la giurisdizione indiana. Se la Corte accoglierà l’istanza, Roma e Delhi avranno altro tempo prezioso per definire un accordo salva-faccia che disinneschi la crisi ereditata dai governi precedenti, ripristinando buoni rapporti (e ottimi affari). Ma la Corte è un potere autonomo e imprevedibile, e un suo “no” potrebbe scatenare un incubo diplomatico.
«In ogni caso – dice il giurista Natalino Ronzitti, docente emerito di Diritto internazionale alla Luiss – il marò non potrà tornare: riaccompagnare in India una persona malata perché la Corte gioca con noi su un piano politico sarebbe impresentabile. Tecnicamente c’è una giustificazione molto chiara, si chiama “condizione di estremo pericolo” ed è dimostrabile con precedenti: la utilizzò la Francia per uno dei suoi agenti segreti confinati in un’isola in Polinesia per l’affondamento nel 1985 della nave di Greenpeace “Rainbow Warrior”. Basta saperle motivare, le cose, e mi sembra che fin ora nessuno l’abbia fatto».
In ogni caso, la decisione della Corte suprema non sarà appellabile. Se sarà negativa, l’Italia avrà poche ore per andare a prendere Latorre in ospedale e per farlo salire su un aereo diretto a Delhi, creando una situazione di pericolo oggettivo per la salute del militare. Dunque, aprirebbe inevitabilmente un nuovo livello nella crisi, ma renderebbe anche più semplice per Roma rifiutarsi di adempiere. È la scommessa su cui si basa la posizione italiana, che in questo momento è paradossalmente più forte di quanto sembri. Il problema, semmai, è riportare a casa anche l’altro fuciliere, Salvatore Girone, libero su cauzione e ospite dell’ambasciata italiana a Delhi. I due governi devono trovare un accordo che soddisfi la separazione dei poteri tra la politica e la magistratura indiana, sottraendole il pallino che tiene in tasca da tre anni senza mai metterlo in gioco.