Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

Basta con inutili polemiche, la nuova legge sulla diffamazione non imbavaglia nessuno. La stampa di sinistra attacca la norma che elimina il carcere e la replica alla rettifica. È giusto che i giornalisti rispondano di quello che scrivono

L’inventore dell’espressione “legge bavaglio” dovrebbe essere miliardario, perché da qualche anno basta evocare una qualsiasi legge sulla diffamazione – tipo quella che ieri è rimbalzata alla Camera in terza lettura, in commissione Giustizia – ed ecco che il vittimismo corporativo paventa bavagli dappertutto.
Ad allarmare le genti è stata ancora una volta Liana Milella su Repubblica (ne aveva già scritto il 10 ottobre scorso) la quale in pratica individua il demonio in qualsiasi norma che possa difendere i diffamati, e costringere i giornalisti, perciò, a rispondere maggiormente delle cose che scrivono: prassi che giornali come Libero – non sempre simpaticissimi alla magistratura giudicante – sono costretti a conoscere bene. Su Twitter, ieri, era tutto un riflesso pavloviano di appelli e mobilitazioni elettroniche, ma la sola certezza sembrava che quasi nessuno avesse letto la legge. Stiamo parlando, va detto, di un provvedimento che doveva limitarsi a eliminare il carcere per i giornalisti (perché richiesto dalla Comunità europea, non per altro) e forse sì, al legislatore la mano è un po’ scappata: gli emendamenti esistono per questo. Il che non toglie che la legge, nelle sue linee generali, sia persino ovvia.
Dunque vediamola. La norma (atto 925-B) si sostanzia in tre passaggi: 1) niente carcere per i giornalisti diffamatori, ma solo multe; 2) obbligo di pubblicare eventuali rettifiche senza commentarle; 3) introduzione dei primi rudimenti di diritto all’oblio, qui inteso come facoltà di non diffondere vecchie e pregiudizievoli notizie se non ve ne sia una ragione ricollegabile al presente; un diritto che non va confuso con quello di eliminare dai motori di ricerca fatti magari anche veri ma che appaiano superati e perciò parziali; su questo terzo punto la legge fa una gran confusione, va detto: ma è l’aspetto che a quanto pare interessa meno.
Cominciamo dalle multe. Sono previsti fino a 10mila euro per una diffamazione commessa in buona fede (espressione ambigua) che salirebbero sino a 50mila euro quando «l’attribuzione di un fatto falso» sia stata diffusa «con la consapevolezza della sua falsità». Resta piuttosto difficile indagare sulle consapevolezze altrui, ma ciò posto, qual è il problema? Dov’è il bavaglio? Forse si ritiene che i giornalisti dovrebbero poter continuare a scrivere il falso (con dolo o meno) senza pagarne lo scotto, o forse si pensa semplicemente che le multe siano troppo onerose: ma non è vero. Si finge di ignorare che già oggi è prevista una cosiddetta provvisionale intesa come anticipo sul risarcimento danni: e la mazzata vera è sempre stata quella, sta lì la botta che i giudici hanno sempre inflitto a giornalisti ed editori secondo totale discrezionalità. Se le condanne per diffamazione dovessero tradursi solo in queste multe, in futuro, i primi a sottoscrivere la legge dovrebbero essere proprio i giornalisti e soprattutto gli editori: ma non è così. I risarcimenti resteranno. In parte, ora, saranno travestiti da multe.
Poi c’è il capitolo delle rettifiche, che dovrebbe essere acquisito e invece pare il più controverso. La legge descrive la facoltà di rettifica come gratuita e obbligatoria: una testata deve pubblicarla entro 48 ore dal ricevimento e senza accompagnarla con commenti redazionali o tipiche ultime parole del giornalista. Secondo Liana Milella, questa «negazione del diritto di replica» (che poi sarebbe una controreplica) è addirittura «al limiti della costituzionalità» e «mette a rischio il giornalista e il direttore della testata, una figura parafulmine, che risponderà di ogni riga pubblicata, anche anonima». Cioè esattamente come è già oggi: il ruolo del direttore responsabile è proprio quello di garantire i contenuti di una testata anche in assenza di una specifica firma o in presenza di uno pseudonimo. E – proseguendo – che succede se non viene pubblicata la rettifica? Succede che il presunto diffamato «potrà rivolgersi al giudice che a sua volta potrà segnalare il caso all’ordine professionale per una rivalsa disciplinare sul cronista». Anche questo succede già oggi. Gli avvistatori di bavagli temono che l’obbligo di pubblicazione sia sproporzionato e renda succubi di tutte le sciocchezze un tizio voglia veder pubblicate: ma il direttore di un giornale potrà sempre regolarsi (come avviene oggi) anche perché la legge dice chiaramente che i responsabili del giornale o del sito sono «tenuti a pubblicare» purché le rettifiche «non siano documentatamente false», e che, in tal caso, si può rimandare una decisione ancora una volta a un giudice: come avviene oggi. Sul come e dove pubblicare queste rettifiche (che devono essere rettifiche e non libere opinioni, dunque) la legge potrebbe essere effettivamente più precisa: altrimenti si rischia di pubblicarle dove capita e con le modalità che capitano, come avviene oggi.
Per qualche misteriosa ragione che perdura negli anni, poi, gli avvistatori di bavagli paventano pericoli maggiorati per tutto ciò che riguarda il web. Già il decreto Alfano del luglio 2009 (comma 28, lettera a dell’articolo 1: ma il decreto non passò mai) fu denominato «ammazza-internet» soltanto perché «per i siti informatici le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono». In pratica, cioè, il decreto prevedeva che le testate web dovessero comportarsi come tutto il resto della stampa cartacea, ed esserne perciò equiparate: e ancor oggi non è chiaro perché non debba essere così. È come se il mondo del web continuasse a rivendicare una pretesa di separatezza ormai antistorica: forse perché – nodo nevralgico – milioni di siti si limitano a rubare e copiare da altre fonti con la pretesa aggiuntiva di continuare a lavarsene le mani. Secondo Liana Milella di Repubblica (ma ieri, su Twitter, si accodavano genericamente Riccardo Jacona, Riccardo Bocca, Stefanò Rodotà, Claudio Giglioli, Jacopo Iacoboni, Articolo 21 e infiniti altri) «nel caotico mondo del web e delle tv che trasmettono news 24 ore al giorno, una rettifica così congegnata rischia di provocare la paralisi dell’informazione». E perché mai? Non è chiaro. Le rettifiche televisive possono avere spazio senza che i palinsesti siano squadernati: persino questo avviene già oggi. La legge peraltro dice che le norme sulla diffamazione (cioè le multe e le rettifiche) vadano estese all’online solo nel caso di «testate giornalistiche», scelta che sembra quasi suggerire una non-registrazione ai tantissimi blog e siti informativi presenti nel Paese: tutti liberi di diffamare impunemente. La legge appare sin troppo permissiva, dunque: ma serve a evitare che un qualsiasi ragazzetto apra un blog si ritrovi una causa per diffamazione solo perché ha maneggiato un giocattolo più grande di lui. Come forse fanno, anche da adulti, troppi giornalisti con l’informazione.