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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

Sport & lusso, così Abu Dhabi ha puntato sulle gare sposandole all’eccellenza, fino a diventare la Montecarlo degli Emirati. Poligoni, ippodromi, stadi kartodromi, il parco tematico della Ferrari e il GP di Formula 1, eventi di golf e di vela

Laddove nel 2008 c’era solo deserto e ambizione, oggi, sette anni dopo, c’è una nuova Montecarlo, con tanto di ristorante Cipriani, russi milionari con le banconote arrotolate in tasca, concerti di Pharrell Williams, prìncipi inavvicinabili, e Ferrari fiammanti. Potere dei petrodollari, si potrebbe dire. Ma si rischierebbe di sintetizzare troppo. Perché i petrodollari da soli avrebbero faticato a trasformare Abu Dhabi, ovvero una città fino a ieri popolata da tribù di allevatori di dromedari e pescatori di perle, in quello sfavillante scenario del lusso che è oggi.
L’ingrediente magico, il catalizzatore tra l’enorme disponibilità di risorse economiche derivate dalla scoperta del petrolio e l’ambizione della classe dirigente locale – che passando da queste parti si percepisce chiaramente come qualcosa ai confini con la megalomania – è stato un altro: lo sport. L’intuizione è da attribuire a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, l’attuale califfo dell’emirato. Secondo Forbes, uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio personale, stimato, di 21 miliardi di dollari (è il fratello del presidente del Manchester City). Ereditato nel 2004 il regno da suo padre – che aveva provveduto ad impiegare i soldi del petrolio nella costruzione di strade, ospedali e acquedotti – il califfo ha puntato tutto sullo sport, un mondo che proprio in quegli anni conosceva non poche difficoltà, specialmente economiche, in quasi tutto il resto del mondo. Così, mentre la vicina rivale Dubai investiva i suoi soldi nella speculazione edilizia, nella capitale si favorivano gli investimenti degli stranieri che volevano portare tra quelle dune lontane e sconosciute gli eventi più prestigiosi del mondo, qualunque essi fossero. Il primo a capire le enormi potenzialità di Abu Dhabi fu, come capita quasi sempre, Bernie Ecclestone, il patron della Formula 1. La storia dello sbarco in quella fetta di mondo, il vecchio Ecclestone la racconta sempre molto volentieri. Da tempo si era messo in testa di portare la Formula 1 da quelle parti. «Al tempo nessuno se ne rendeva conto – ripete sempre – ma quella zona è una delle più raggiungibili da quasi tutto il resto del mondo. Da Asia e Europa ci si arriva con voli relativamente brevi, e può contare su aeroporti fantastici e compagnie aeree ricche ed efficienti. Inoltre c’è un ottimo fuso orario, che per i palinsesti televisivi è una manna».
Così nel 2000 Ecclestone cominciò a parlare con Dubai che da tempo era alla ribalta dei grandi mercati finanziari per via dei mega investimenti nel settore del lusso. Ma Dubai fu bruciata sul tempo dall’imprevista concorrenza del Bahrein. Nel 2004, si corse così la prima gara in Medio Oriente nella storia della F1, a Manama, e mentre Michael Schumacher storceva il naso davanti alla impossibilità di brindare alla vittoria con il solito Moët&Chandon (sostituito per motivi di legge con acqua di rose frizzante), al vecchio manager inglese brillavano gli occhi per motivi tutti suoi. «C’era un clima fantastico – racconta oggi – e gli arabi avevano messo in campo una tale potenza organizzativa che mi fu tutto chiaro: chiunque in futuro avesse voluto fare soldi con lo sport, sarebbe dovuto andare da quelle parti». Quindi riprese subito il discorso con quelli di Dubai che però si fecero bruciare una seconda volta. Proprio da Khalifa bin Zayed Al Nahayan il quale rilanciò con un’idea incredibile. Creare un’isola artificiale in mezzo al deserto e trasformarla nel regno non solo della Formula 1 ma dello sport tutto. I lavori durarono il tempo che in Italia ci vuole a convocare un’assemblea di condominio, e nel 2009 si tenne il primo, scintillante Gran Premio di Abu Dhabi.
Fu l’inizio di una nuova primavera per una città che fino a quel momento era percepita solo come la soporifera capitale, economica politica e religiosa della regione. Oggi ammirando il miracolo dei giardini che fioriscono nel deserto, o inseguendo con lo sguardo le vele arancioni degli hobye cat che tagliano in due il mare artificiale dietro le quinte degli alberghi di lusso, si può dire che quella scommessa è stata vinta. Lo Yas Island – questo il nome della Montecarlo degli Emirati – attira milioni di turisti e soprattutto di investitori russi e americani. Nella stessa area sono rapidamente spuntate decine di mega strutture di ogni natura: il Ferrari Abu Dhabi World, il parco tematico del Cavallino il cui logo, sulla copertura rosso fuoco, si vede pure dalla Luna; lo Yas Mall, il centro commerciale più grande del mondo; un parco acquatico; uno degli hotel più spettacolari del mondo, il Viceroy. E poi, ovunque, poligoni, ippodromi, stadi, kartodromi. Strutture enormi, nuovissime, efficienti e sempre frequentate.
Un successo che ha dettato la linea a tutta l’area, costringendo anche Dubai a rilanciare pesantemente sullo sport, investendo il più possibile sulle proprie strutture e invitando investitori stranieri. La vittoria dell’organizzazione dell’Expo 2020 ha poi fatto il resto. Le due città storicamente in concorrenza si sono momentaneamente unite aumentando così l’attrattiva dell’intera zona per gli investitori. Che sono arrivati persino dall’Italia. La Rcs Sport, la società che organizza il Giro d’Italia, nel 2014 ha battezzato il Dubai Tour, una corsa a tappe tra le dune e i grattacieli, che quest’anno, per la seconda edizione avrà come testimonial Vincenzo Nibali, il trionfatore del Tour de France.
Perché oltre all’automobilismo gli sport più seguiti sono il golf, vela e ippica, ovvero quelli più facilmente vendibili nel “solito” circuito del lusso. Fatica di più il calcio. Il campionato locale non è un granché nonostante cerchi di attirare con cachet spaventosi calciatori di fama dall’Europa. La gente continua a preferire Premier, Liga, Bundesliga e persino la Serie A. Mondi distanti e ambiti che cercano di fare passerella da quelle parti: un altro italiano, Enrico Bendoni, in partnership con il Dubai Sports Council dal 2009 organizza il “Globe Soccer Awards” per premiare le eccellenze mondiali del pallone. Quest’anno, Carlo Ancelotti, Cristiano Ronaldo, James Rodriguez e parecchi altri big hanno posato felici davanti all’Atlantis the Palm, uno degli alberghi più costosi del pianeta.
Abbinare lo sport al lusso è stata una delle chiavi di volta di questo successo. Ma non l’unica. Secondo la retorica del Governo locale – contestato da Amnesty International, che lo accusa apertamente di aver investito sullo sport per coprire dietro il glamour repressioni e violenze da regime dittatoriale – la ragione di tutto questo successo è da ricercare nello spirito del popolo arabo, tradizionalmente incline alla disciplina e alla competizione.
La verità è probabilmente un po’ più prosaica. Gli emiri hanno saputo convincere gli organizzatori stranieri a portare il proprio prodotto in un posto apparentemente ostile. E per farlo si sono avvalsi anche di un regime fiscale particolarmente favorevole. Praticamente, non si pagano le tasse. La regolamentazione è ferrea, ma la fiscalità è zero. Grazie alle free zone : intere aree delle città dedicate al business. Ve ne sono 38 tra Dubai, Abu Dhabi, Sharjah, Fujairah, Ajman, Ras al Khaimah e Umm Al Quwain. In queste zone le imprese straniere non pagano alcuna tassa, né sull’azienda, né sull’import-export, né sul personale. Proprio come a Montecarlo. Anzi, meglio.