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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

Erri De Luca, imputato per istigazione per aver detto che «la Tav va sabotata», contrattacca in un libro. «Ecco le mie parola alla sbarra. Se l’opinione è reato, continuerò a commetterlo»

Alla fine lo dice anche Erri De Luca: essere processati è come vincere un premio letterario. Non importa che l’assegnazione avvenga in un’aula di tribunale anziché nel salone delle feste. E non importa che sia l’unico candidato. Anzi, la ribalta può essere ancora più illuminata, un’occasione non per chiudersi in difesa ma per partire al contrattacco. Da imputato lo scrittore diventa accusatore. Da sabotatore, vittima di sabotaggio. Del «sabotaggio del diritto di manifestazione verbale, soprattutto quando la parola non è ossequiosa ma contraria». In attesa dell’udienza, fissata il 28 gennaio, la controffensiva è affidata a un pamphlet, già pronto anche in edizione francese: La parole contraire esce oggi da Gallimard, La parola contraria tra una settimana da Feltrinelli. «La parola contraria è stata messa su un piedistallo di valore», scrive De Luca. «Penale per i giudici, costituzionale per me».
La procura di Torino l’ha rinviato a giudizio ritenendo che vi sia una relazione tra una sua improvvida dichiarazione rilasciata nel settembre del 2013 all’ Huffington Post – «la Tav va sabotata» – e la miriade di attentati successivi a quell’intervista. Post hoc, ergo propter hoc, secondo l’accusa. «Una relazione indimostrabile», secondo l’imputato che riconduce il verbo “sabotare” al suo significato di “ostacolare” e “impedire”, «cosa ben diversa dal danneggiamento materiale». «Un’invocazione di malaugurio», aggiunge lo scrittore alludendo alle sue radici napoletane. «E il malaugurio non è perseguibilento, le penalmente».
Dopo svariati decenni uno scrittore torna dietro la sbarra. L’elenco dei romanzieri finiti in procura è fin troppo lungo in Italia, con vittime illustri come Pasolini e Moravia, Testori e Bianciardi, Tondelli e Busi. Ma, attenzione, quasi sempre l’accusa è di oscenità, reato tuttora in vigore. Mentre nel caso di De Luca non si tratta di offesa al pudore, retaggio di un’Italia contadina che non c’è più, ma di istigazione a delinquere e istigazione alla violenza, eredità di un passato che non passa. Una sua condanna porterebbe l’Italia al Medioevo, perché le opinioni pur scriteriate non si condannano se non ne è dimostrata una connessione con l’azione violenta. E appare difficile immaginare questo signore dal volto scavato e dal fisico ascetico, biblista autodidatta e scrittore visionario, affannarsi intorno a candelotti di dinamite e bombe molotov.
I suoi avversari si ostinano a ricordarne i trascorsi nel servizio d’ordine di Lotta Continua come una sorta di male irredimibile. Lui si schermisce: «Non sono incriminato per aver fatto ma per aver detto». Preferisce rispondere con i suoi libri: «In quale di essi ho istigato a commettere dei reati?». In fondo il martirio non gli rincrescerebbe, «ma i giudici questo piacere non te lo fanno», lo provocano gli amici alludendo alla vanità dell’ex combattente.
Ecco, la vanità dell’ex combattente. È la stessa che traspare anche dal suo j’accuse bilingue, l’autoincensamento di una generazione che è tuttora orfana di un passato vio- spesso riproposto in modo narcisistico e irresponsabile come l’età dell’oro di un’Italia assetata di giustizia. Una schiera di reduci di una guerra mitizzata, dichiarata soltanto da loro, e verso la quale non sono capaci di una sola «parola contraria».
Anche i riferimenti culturali, esibiti nel libro con impudente ingenuità, documentano un tempo interiore seppellito dal tempo della storia. L’autore confessa che vorrebbe essere per i giovani di oggi quel che fu per la sua generazione l’Orwell dell’ Omaggio alla Catalogna, ossia un intellettuale che nel 1936 aveva partecipato alla guerra civile spagnola. E ancora, rimpiange la mobilitazione dei maîtres a penser contro il colpo di Stato cileno, l’11 settembre del 1973. E ricorda che anche nella Marsigliese, l’inno della rivoluzione francese, c’è il richiamo alle armi. Ora la Tav è una discutibilissima opera pubblica contro la quale valgono molti argomenti, ma non siamo in guerra contro Franco né contro Pinochet, tanto meno contro Luigi XVI. La lucidità è necessaria in un paese che sotto Natale si ferma per un attentato ai treni rivendicato con sigle “No Tav”. Un danno enorme per i tanti che si oppongono all’alta velocità con metodi democratici. E anche su questi attentati sarebbe necessaria «una parola contraria», che però De Luca nel suo pamphlet si astiene dal pronunciare.
Lo scrittore al momento rilancia, trasformando il suo dibattimento in un processo ai giudici che l’hanno rinviato a giudizio. «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì potranno. Nell’aula e fuori isolata è l’accusa». Mentre i suoi avvocati si mettono le mani nei capelli, annuncia che «se condannato non inseguirò altri gradi di giudizio in cerca di più favorevoli sentenze». E «se dichiarato colpevole delle mie parole, ripeterò lo stesso reato da criminale incallito e recidivo». In sostanza, «se l’opinione è un reato, continuerò a ripeterlo», conclude sconsolato in attesa di quel «riconoscimento letterario» che in Italia – lamenta nel suo libro – non ha mai ricevuto.