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 2015  gennaio 08 Giovedì calendario

Così Renzi si scrive le leggi da solo. Ecco il metodo: al Parlamento e al Consiglio dei ministri arrivano scatole vuote, poi vengono riempite secondo la sua volontà. Quando Napolitano lo censurò

La riforma del lavoro è il penultimo esempio (l’ultimo è la delega fiscale) del metodo Renzi di fare le leggi. Un metodo che ha svuotato di ruolo e potere le sedi deputate. Per restare all’esempio del lavoro: il governo ad aprile 2014 vara la legge delega. Il Parlamento approva a dicembre. Con fiducia: il che vuol dire consegnare all’esecutivo una delega, appunto, praticamente in bianco per scrivere i decreti attuativi, quelli che danno contenuto alla riforma. Il Cdm della vigilia di Natale li fa e li approva. Ma c’è un punto – non esattamente secondario – quello sugli statali, che non viene chiarito: rimandato al Parlamento. O meglio alle future trattative politiche.
La prassi è questa, dall’inizio. Il decreto sulla riforma della Pa, approvato dal Consiglio dei ministri il 12 giugno, arrivò al Quirinale 12 giorni dopo, il 24 giugno. Sdoppiato. Perché quello uscito dal Cdm era un testo “monstre”, un brogliaccio, fatto di norme giustapposte. In quel caso, Napolitano spiegò al giovane premier che le leggi non si possono fare così. Monito ribadito il 16 dicembre (parlando dell’ “abuso della decretazione d’urgenza”, e del “ricorso – per la conversione dei decreti – a voti di fiducia su abnormi ma-xi-emendamenti,”), nel discorso alle alte cariche dello Stato per il resto iper-renziano. Ma il presidente del Consiglio va per la sua strada. Per dire, nella notte del 19 dicembre si fa approvare dal Senato la legge di stabilità (ovviamente con fiducia), con alcune parti direttamente in bianco. Confusione, imperizia, eccessiva velocità, mancanza di controllo delle strutture dei ministeri? In parte, ma di certo non solo. Perché Renzi ha reso prassi consolidata e portata alle sue potenzialità estreme l’abitudine di approvare le leggi “salvo intese”. Il che vuol dire che post Cdm si può intervenire di nuovo e inserire qualsiasi cosa come (sembra) sia successo con la delega fiscale. Lasciando un terreno di opacità su chi ha davvero voluto una cosa. Nei vari brogliacci di legge modificati in corsa in questi mesi è entrato di tutto: norme con sospetta incostituzionalità, favori all’una o all’altra lobby. Alcune cose sono state tolte successivamente, altre sono rimaste. Tra la conferenza stampa in cui lo stesso premier annuncia le misure e le misure effettivamente varate di tempo ne passa: e così è molto difficile per l’opinione pubblica distinguere tra promesse e realtà.
Nel frattempo, la verticalizzazione delle decisioni diventa massima. Perché il Parlamento, tra una fiducia e l’altra, è di fatto espropriato. E il Consiglio dei ministri ratifica spesso cose sulle quali non ha l’ultima parola. Affidata a chi, invece, le leggi poi le stende materialmente: il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, guidato da Antonella Manzione. La fedelissima ex vigilessa di Firenze, che Renzi ha voluto ad ogni costo a Palazzo Chigi, nonostante la bocciatura della Corte dei Conti. Che ha il compito di eseguire materialmente le direttive del Capo. Ovvero tradurre in leggi le sue intenzioni. Alla fine, insomma, chi decide? Matteo Renzi.