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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

Le Sob Sisters, le grandi pettegole di Hollywood. Così Elsa Maxwell, Hedda Hopper, Louella Parsons e le altre croniste dell’epoca dettarono le regole del gioco mondano

Ricordate l’inizio di L’impareggiabile Godfrey, una delle grandi commedie “sociali” (e divertentissime) degli anni Trenta? In quella formidabile sequenza, vediamo due belle signore (l’incantevole Carole Lombard e la sua sofisticata sorella, nel film, Gail Patrick) arrivare tutte chic, in abito da sera, in una bidonville sull’East River di Manhattan, popolata di poveracci vittime della crisi del’29, e contendersi un barbone (il meraviglioso William Powell, di cui giustamente Carole Lombard immediatamente si innamora), per portarlo come “ritrovamento” di una caccia al tesoro al Waldorf Astoria, dove un giudice valuta la rarità dei reperti: capre, scimmie, barboni finti, barboni autentici: e “forgotten men”, come il nostro William Powell. Volete sapere come va a finire? La caccia al tesoro, la “scavenger hunt”, la vince Lombard con il suo autentico, fascinoso poveraccio, che, assunto come maggiordomo dalla famiglia di lei e trovata una spinta a ricominciare, lei alla fine sposerà.
Un mondo dominato da un’alta società decisamente eccentrica che ritroviamo adesso in Party – L’arte del divertimento (pagg. 266, euro 17,50, pubblicato qui in Italia da Elliot), summa dell’arte sociale della giornalista americana Elsa Maxwell (1883-1963), la lingua temibile che per anni, tra Europa e America, dettò le regole del gioco mondano, facendo la fortuna e la sfortuna sociale di chi aspirava al successo.
Una specie rarissima, all’epoca, quella della cronista donna. Costretta a muoversi, in America e non solo, in un mondo dell’informazione totalmente maschile. Elsa, comunque, non era sola. Le altre, le sue colleghe della stessa generazione, si chiamavano “sob sisters”. Le grandi pettegole di Hollywood, e non solo. Le giornaliste che, in quanto femmine, non riuscivano a ottenere missioni dure e interessanti come quelle degli uomini, e venivano relegate ai casi commoventi, alle storie lacrimose, al fattore umano. Un personaggio come quello di Hilda del film La signora del venerdì di Howard Hawks, scatenata cronista di nera afflitta dal sacro fuoco del mestiere, non poteva esistere, nella realtà. Le donne dovevano far piangere.
Pare che la locuzione “sob sister” sia stata coniata nel 1907 durante il processo al miliardario Harry K. Thaw accusato dell’assassinio dell’architetto Stanford White, che lui sospettava fosse l’amante della moglie, la bella Evelyn Nesbit. Quattro giornaliste – tra cui Winifred Black, collaboratrice dei giornali di Hearst e di altre testate, con diversi pseudonimi – erano raccolte tutte commosse (Stanford White era molto bello) intorno a un tavolo. Qualcuno parlò dei loro singhiozzi (che in americano suonano “sob sob”, come nei fumetti). Il nome rimase, ed entrò nei dizionari dello slang a partire dal 1925 come «un reporter donna che si rivolge alla simpatia di lettori con i suoi resoconti di avvenimenti patetici». Ma i “sob”, i singhiozzi femminili, si traformarono lentamente in cattiverie, pettegolezzi, cronache rosa, cronache cinematografiche. Le sob sisters, per ribellione, invasero il terrreno del gossip: con la parola “sob” che lascia il significato di singhiozzo per diventare, nell’interpretazione maliziosa (e sessista) di alcuni, l’acronimo inglese di “figlie di...”.
E dunque in attesa delle Clare Booth Luce e delle Katharine Graham, grandi figure del giornalismo femminile “serio” della generazione successiva, la strada fu aperta da pioniere come Elsa Maxwell. O come Louella Parsons, che con i suoi articoli e le sue recensioni era temutissima da registi, produttori e star del cinema. Ma c’era ancora posto per le lacrime e il caso umano. Ed è Hedda Hopper, bella, perfetta, elegante nel ruolo di se stessa che vediamo piangere, emettendo degli eleganti “sob sob”, mentre Norma Desmond fa la sua ultima, drammatica apparizione pubblica nel grandioso finale del film Viale del Tramonto.
Il fascino estetico, invece, non è certo il forte di Elsa Maxwell. Nata nella provincia americana dello Iowa, afflitta da una eccezionale, straordinaria bruttezza, e famosa, come Paris Hilton, per essere famosa. Proprio per quest’ultima sua caratteristica, il suo libro Party, la svela come compiaciuta osservatrice di un’irreale mondanità. Parla di un mondo astrale. Spiega, dalla sua esperienza di organizzatrice di feste, come mettere a sedere a tavola duchi e duchessse (si sa che gli americani sono più che mai sensibili ai riti dell’aristocrazia europea, vera o finta che sia). Il tutto in un continuo name dropping (o dell’arte di citare gli amici e i conoscenti vendendo al meglio le proprie relazioni): con un indice dei nomi che va da Marcel Achard alle ricette di Mrs Zanuck (per non dire di quelle della stessa Maxwell, che hanno la pericolosa tendenza a impiegare un panetto di burro tanto per cominciare), da Charles Beistegui, il miliardaio che ospitò il famoso ballo veneziano di Palazzo Labia, a Cole Porter, dichiaratamente adorato dall’autrice, da Maria Callas all’Aga Khan, da Noel Coward a Marilyn Monroe, da Hollywood all’Europa. Dietro questo manuale di futile e costosa mondanità c’è però un personaggio molto più affascinante delle sue tremila feste, tra cui quella, celeberrima, in cui gli invitati dovevano travestirsi come una persona che odiavano (lei si travestì da Farouk, e non fu perdonata). Elsa Maxwell rappresenta il caso di una vita segnata da dei pesanti handicap di partenza che la forza di volontà, l’ambizione, l’intelligenza hanno cancellato. Una ex cantante, ex impresario teatrale, ex giornalista, ex commentatrice di costume, ex sob sister (o cronista di casi commoventi), che aveva trovato il suo vero talento come promotrice dell’impalpabile nulla della mondanità. Una inguaribile snob (anche se lei negava) che ha fatto dimenticare le sue origini non propriamente aristocratiche e che, complice il mezzo televisivo, è entrata in ogni casa.
Vero. Le regole che detta il suo libro sono obsolete (ma almeno una è interessante: sapete che durante il primo piatto si deve parlare al vicino di sinistra per poi passare, alla seconda portata, a quello di destra, e via alternando, in modo che nessuno resti tagliato dalla conversazione?). Le ricette sono pesanti. Il suo tempo, lontano. Ma non c’è dubbio: Elsa Maxwell si divertiva. O sapeva nascondere molto bene che non si divertiva. E sapeva emergere in un mondo tutto maschile. Lei, così come le sue pioneristiche colleghe Sob sisters.