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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

Bostridge, il cantante senza voce che conquista la Scala

Si può cantare, e pure bene, senza voce? Paradossalmente, sì. La conferma è arrivata lunedì alla Scala dal recital del tenore inglese Ian Bostridge, una Liederabend costruita sui versi di Heine musicati da Schubert, Liszt e soprattutto Schumann, il ciclo Dichterliebe, «Amor di poeta».
Bostridge è un personaggio interessante. Intanto è un tenore intellettuale, quindi una specie di ossimoro vivente, già professore a Oxford e specialista della caccia alle streghe fra Sei e Settecento. Poi ha scelto il canto. Anche vocalmente, è il contrario dello stereotipo tenorile, almeno di quello italiano e operistico. La voce, si diceva, è modesta: volume piccolo, estensione ridotta sia in alto (dove usa degli strani portamenti a rischio stecca, come in Der Atlas di Schubert) che in basso, timbro bianchiccio, legnoso e spesso nasale. Anche la tecnica non è certo quella italiana: niente «maschera», suoni «aperti» e quasi parlati. Per finire, altissimo, magrissimo, pallidissimo, sul palco il prof sembra sui carboni ardenti, come una delle sue streghe sul rogo.
Eppure, Bostridge è un grande cantante e un grande artista. Dimostra due verità spesso negate: la prima, che non esiste solo una tecnica vocale, ma molte; la seconda, che il canto è un mezzo espressivo, non un fine in sé.
Questa voce ingrata si rivela camaleontica, si trasforma, aggredisce le parole e dà, a ognuna, un colore, un peso e un significato diversi. E poi anche per cantare essere musicista aiuta. Per esempio, è eccezionale il senso del ritmo e la capacità di variarlo nei Lieder strofici: ascoltare per credereUnd wüssten’s die Blumen di Schumann, un gioiello. Infine, la sensibilità. Molti di questi brani sono strazianti non per quel che dicono, ma per quel che fanno intuire. Ma qui tutto dipende dall’interprete: e allora perfino Das Fischermädchen diventa sottilmente inquietante, come se Schiele avesse ridipinto un quadretto Biedermeier, mentre tutta la Dichterleibe comunica un senso di lucida desolazione davvero insolito. Merito anche di Thomas Adès, che è forse il maggior operista del nostro tempo ma certamente un accompagnatore eccezionale. Per tutto il concerto, il suo pianoforte non ha quasi mai superato il mezzoforte, ma da lì al pianissimo ha trovato una serie infinita di sfumature. Gran successo e tre bis.
PS: sono mondi diversissimi e sembrerà blasfemo agli ammiratori dell’uno e dell’altro, ma al concerto di Bostridge un pensiero andava a Pino Daniele, morto poche ore prima. Al netto delle iperboli celebrative, in fin dei conti anche lui aveva una voce «strana» e non bella, un falsetto un po’ rauco e ribelle. Però sapeva usarla ed era un artista. La differenza è tutta qui.