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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

Il triste declino di Massimo D’Alema, contestato anche quando va a porgere l’ultimo saluto a Pino Daniele. «Ao’, e perché a quello lo fate entrà e noi stamo fori?», si sbraccia una signora additando il D’Alema che cammina alla chetichella lungo il muretto, «alla sorcio» come dicono i romani. «Vergogna!». «’A la-dro!». «Nun fa er furbetto!». «Mannatelo via!». «Fuo-ri! Fuo-ri!». «Salutace Prodi!»

Se tutto fa brodo per sondare gli umori del popolo alla vigilia della scelta di un nuovo presidente della Repubblica, allora diremmo che dalla foltissima lista dei «papabili» per il Quirinale andrebbe sbianchettato un nome alla lettera «D»: D’Alema, Massimo.
Massimo chi?, avrebbe maramaldeggiato qualche buontempone a Palazzo Chigi in linea con gli incentivi per la rottamazione. Fatto è che l’ex Primo Presidente del Consiglio proveniente dal Pci, l’ex Capo Apparato, l’ex Poldino Spezzaferro di tutte le sinistre che aspiravano al governo e alle Golden Share del Paese, seppure male in arnese, non è stato affatto dimenticato dal Paese. Vuoi per quegli strani meccanismi riconducibili alla sindrome di Stoccolma, vuoi per il piglio sarcastico del personaggio, che non ne ha mai perdonato una (spesso azzeccandoci pure, così come non ci ha mai azzeccato quando toccava a lui). Insomma: D’Alema vorrebbe essere dimenticato, almeno quando non va per fiere vinicole, ma gli italiani proprio non riescono a toglierselo dalla memoria.
Colpa un po’ anche dello stesso ex Leader Maximo, va detto. Per esempio, non è chiaro quale procedimento logico lo abbia condotto ieri verso ora di pranzo a imbarcarsi dal quartiere Prati (Nord-Ovest della Capitale) fino all’Eur (Sud-Ovest), apparentemente da solo e senza mezzi di locomozione certi, per rendere omaggio alla salma di Pino Daniele all’ospedale Sant’Eugenio. E ancora, visto che la camera ardente era stata chiusa, e davanti sostava una folla di fan un po’ tristi ma anche molto vocianti (si sa come sono i fan), che cosa lo abbia indotto a credere che si sarebbe potuto passare per un accesso riservato – un vialetto che passa proprio davanti la folla vociante – al fine di vedersi concedere una deroga alla chiusura. L’effetto di questa sfortunata concatenazione di ragionamenti erronei era prevedibile. «Ao’, e perché a quello lo fate entrà e noi stamo fori?», si sbraccia una signora additando il D’Alema che cammina alla chetichella lungo il muretto, «alla sorcio» come dicono i romani.
È quella la stura a decenni di sottomissione, e le orticarie trovano ora facili vie di sfogo. «Vergogna!». «’A la-dro!». «Nun fa er furbetto!». «Mannatelo via!». «Fuo-ri! Fuo-ri!». «Salutace Prodi!». Un fan ragionevole racconta che da ore sono tutti in coda, compreso Enzo Gragnaniello, storico cantautore napoletano e persino compagno di scuola di Pino, «mentre scommetto che D’Alema non conosce nemmeno le sue canzoni...», insinua con vasto cedimento alla provocazione. Eppure nel frattempo l’ex-tutto – già capace assieme al gemello Veltroni di porre le basi dello sfacelo della sinistra nel decennio che va da Terramia a Nero a Metà ad Appocondria – ha capito l’antifona, in quanto resta uno scetato assai. Ha già fatto rapido dietro-front, ed è tornato in cima alla salitina quando dedica l’ultimo saluto a Pino Daniele: «Ma io sono venuto perché sono amico... Non ho voluto creare confusione per cui mi sono fermato», dice in favore di telecamera, poco prima di attraversare pericolosamente la strada (neppure le strisce sembrano proteggerlo da un motociclettone che rischia o tenta, non si capisce bene, di tirarlo sotto).
Restano così da stabilire un paio di cosette, considerando che lo stesso D’Alema s’era trovato in una situazione simile – anzi un po’ peggio – quando a Bari, scendendo dallo studio del sindaco Pd Decaro, aveva deciso di concedersi una passerella lungo la manifestazione per lo sciopero generale indetto dalla Cgil il 12 dicembre scorso. Anche lì erano volati insulti come se piovesse, sia perché pare che sfortunatamente fosse finito nel settore della Ugl, sia perché evidentemente anche quelli della Cgil non riescono a dimenticarselo, il D’Alema.
Sia perché, infine, il miracolo più autentico di Renzi non pare essere consistito solo nella rottamazione, quanto nel separare se stesso e il governo dal partito, dunque dal passato. Così il popolo soffre, si lamenta, e sbraita contro chi governa. Ma poi se incontra per strada uno spodestato come D’Alema (o come Rosy Bindi, prima di Natale) non resiste a scaricargli addosso decenni di veleno represso.
Fossimo in D’Alema, ci penseremmo a fondo. Un leader politicamente morto che viene rifiutato pure dall’obitorio non è un buon segno, diciamo.