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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

Dal Venezuela all’Iran, dalla Nigeria alla Russia: ecco i Paesi in difficoltà per il crollo del petrolio. In questi anni, incuranti dei pressanti appelli rivolti dal Fondo monetario internazionale, hanno preferito sperperare il denaro con misure popolari (sussidi, aumenti salariali, alloggi) volte a placare il crescente malcontento, anziché dare il via alle dolorose, ma necessarie, riforme strutturali. E oggi la pagano cara

Parsimoniosi non lo sono stati. Tutt’altro. Incuranti dei pressanti appelli rivolti dal Fondo monetario internazionale e da altre organizzazioni, buona parte dei Paesi esportatori di petrolio ha preferito sperperare il denaro con misure popolari (sussidi, aumenti salariali, alloggi) volte a placare il crescente malcontento, anziché dare il via alle dolorose, ma necessarie, riforme strutturali. D’altronde ai loro occhi, l’era delle vacche grasse, quella del petrolio sopra i 100 dollari, sembrava non finire. Poi è arrivato il crollo, tanto inatteso quanto brutale: più del 50% da giugno a oggi. E non è detto che sia finita.
Eppure sapevano bene che la cura per guarire dalla petrodipendenza, virus di cui soffrono quasi tutti (nei casi estremi le vendite di petrolio coprono il 95% dell’export e l’80-90% delle entrate governative), comporta severità e misure strutturali, tra cui la diversificazione dell’economia e l’abbattimento dei costosissimi sussidi.
Ora tra i Paesi dell’Opec, ma non solo, c’è una corsa a riscrivere le leggi di bilancio. Snellire i budget è un imperativo. C’è chi si trova in una situazione più sostenibile, come Arabia,?Emirati e Kuwait, e chi invece vivrà anni drammatici, come il?Venezuela, l’Iran e la Nigeria. Ma tutti, o quasi, avranno a che fare con decisi deficit di bilancio. Per alcuni la recessione appare inevitabile.
Per l’Arabia Saudita, il maggiore esportatore mondiale, la situazione è difficile, ma non drammatica. Merito delle grandi riserve in valuta straniera: 745 miliardi di dollari. Il 2013 si era concluso con un surplus di 56 miliardi. Il 2014 potrebbe vedere una sostanziale parità. Ma già in dicembre si calcolava che se il prezzo del greggio si posizionasse su una media di 60 $, Riad si ritroverebbe nel 2015 con un deficit di 40-50 miliardi. Potrà sopravvivere, anche con valori molto più bassi. Non però sul lungo termine.
Ben peggiore è la situazione dell’Iran, nemico storico dell’Arabia. Strozzata dalle sanzioni internazionali, che in alcuni periodi hanno più che dimezzato l’export di greggio, la Repubblica islamica è uno dei Paesi più colpiti dal greggio a basso costo. Tra il partito di chi rischia davvero tanto c’è in prima fila il Venezuela, paese dove populismo e petrolio sono sempre stati un connubio indissolubile. L’economia è allo stremo, le riserve valutarie sono ai minimi da 11 anni, l’inflazione è schizzata al 60% e il Governo teme di non poter ripagare più i pesanti debiti. Pur con i nuovi tagli, Caracas avrebbe bisogno di un prezzo del greggio a 118 dollari per finanziare il budget.
Anche la Libia naviga in cattive acque. Sull’orlo di una guerra civile, l’ex regno di Gheddafi può ancora contare su ingenti riserve valutarie, a cui sta generosamente attingendo per finanziare il budget. Per pagare gli stipendi di un esercito di funzionari pubblici il Paese aveva previsto già in giugno un deficit di 25 miliardi. La situazione è peggiorata.?E le riserve si stanno assottigliando: erano 130 miliardi nell’agosto del 2013, 109 10 mesi dopo, e ora sarebbero scese a 100. Decisa ad aumentar la spesa pubblica per scongiurare potenziali rivolte, il 30 dicembre l’Algeria ha annunciato una spesa pubblica di 108 miliardi per il 2015 ed entrate in calo a 57 miliardi. Le sue riserve (200 miliardi di $) sono ingenti. Ma non infinite.
?Le vittime del petrolio a basso costo sono numerose. Merita un accenno la tumultuosa Nigeria, divenuta nel 2014 prima economia dell’Africa. Il budget, rivisto a dicembre, prevede ora un prezzo del barile a 65 $. Ma non basterà. Le sue riserve valutarie sono più limitate, e la crescita del Pil rallenterà. Infine la vittima più illustre: la Russia. Già in dicembre la Banca centrale stimava una contrazione del Pil pari al 4,5% nel 2015 se i prezzi si fossero posizionati intorno ai 60 dollari.