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 2015  gennaio 07 Mercoledì calendario

«Il Giglio magico non esiste. All’Italia serve più Firenze». Renzi, la sua città e i suoi concittadini al governo

Chissà se con Matteo Renzi si sta inaugurando la politica del geofamilismo, così ben recepito dal ministro Maria Elena Boschi che, interrogata non molti mesi fa su chi preferisse fra Enrico Berlinguer e Amintore Fanfani, dopo qualche titubanza rispose: «Scelgo Fanfani per una questione territoriale dato che era di Arezzo come me». In realtà il geofamilismo del premier è contenuto nella stessa definizione del suo staff, il giglio magico, derivazione del cerchio magico inaugurato attorno a Umberto Bossi e in seguito parecchio imitato.
Il premier nega
Il giglio magico non esiste, ha detto ieri esplicitamente Renzi in un’intervista alla «Nazione», ma invece esiste, ha implicitamente detto subito dopo: «L’anomalia non è la presenza di tanti fiorentini a governare l’Italia, l’anomalia era quando non c’erano. Firenze può essere utile al Paese. È sempre stato un luogo di elaborazione di cultura politica e classe dirigente. Magari noi si sarà più bischeri di quelli di prima, e quelli dopo più bravi noi, ma se la nostra esperienza potrà ricordare a Firenze la sua vocazione di città universale, sarò contento». Se la Boschi è braccio destro del presidente alle riforme, Luca Lotti è sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Francesco Bonifazi è il tesoriere del Pd (per citare gli amati fra gli amati), è perché con Renzi condividono un orgoglio fiorentino (o toscano) e hanno condiviso le stanze di Palazzo Vecchio. Col Parlamento che c’è e coi sussulti rabbiosi dentro al partito, il sindaco d’Italia si fida davvero soltanto di loro.
Oltre il leaderismo
Si sta assistendo al passo successivo al leaderismo, a sua volta venuto fuori dalla crisi dei partiti: con la seconda Repubblica non si votavano più socialisti o democristiani o liberali, si votavano Silvio Berlusconi o Umberto Bossi o Pierferdinando Casini o Antonio Di Pietro, tutti col nome euforicamente stampato sul simbolo (fecero buona eccezione solamente gli eredi del Pci, forse perché il marchio delle casa restava più forte del reggente di turno). I capi erano i portatori e i detentori dei voti, e infatti mai i partiti cambiavano capo, semmai i capi cambiavano nome al partito per questioni di marketing. Ecco, la strada parrebbe completata: dopo i partiti, agli elettori hanno cominciato a fare ribrezzo anche i leader, che improvvisamente sono diventati criticabili, e i loro devastati possedimenti alla portata di qualsiasi comprimario.
Il primato di Bossi
Fu Bossi il primo a circondarsi di pretoriani, c’era la superbadante Rosi Mauro, vicepresidente della Camera, c’erano i capigruppo parlamentari Federico Bricolo e Marco Reguzzoni, e poi deputati e senatori, qualche consigliere regionale fiorito agli aperitivi del Trota, i familiari più stretti, tutti a tenere in piedi una leadership declinante. E poi tutti epurati dal nuovo corso, come succede da che mondo è mondo, e se nessuno si offende per il paragone vengono alla memoria le ritoccate foto di gruppo di Lenin e il cerchio magico del superdiffidente Stalin, da lui stesso ferocemente aggiornato in corsa, e definitivamente spazzato via all’arrivo di Krushev. Non siamo a quei sommi livelli, ma il processo mentale è il medesimo: il cerchio magico di Berlusconi, strutturalmente identico a quello di Bossi (parenti, badanti, vecchie nuove fiamme, vari signorsì), assolve essenzialmente al compito più gradito dal boss: confermargli che è il numero uno al mondo, e se i fatti sono contro peggio per loro. A questo punto il sospetto è che sia superfluo soffermarsi sull’andamento della dissidenza dentro ai cinque stelle, e magari basta sottolineare che i cinque componenti del direttorio incaricato della gestione del movimento sono Luigi Di Maio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, Carlo Sibilia e Carla Ruocco, cinque che tutti insieme non sono riusciti a dare torto a Grillo una sola volta. In fondo il mondo si divide fra quelli alla Vittorio Gassman, che voleva sul palco fenomeni a far risaltare il suo genio, e quelli alla Carmelo Bene, che sul palco voleva mezze figure incapaci di fargli ombra. In questo secondo caso, però, è necessaria un’accortezza: essere Carmelo Bene.