la Repubblica, 7 gennaio 2015
Tutti i veti che hanno impedito a una donna di salire al Quirinale. Dalla Iotti alla Jervolino
Dieci donne sono già salite al Quirinale, in questi settant’anni di Repubblica. Dieci donne: ma come mogli, o come figlie (anche se due di loro, la moglie di Pertini e quella di Cossiga, non vollero dormire in quel palazzo abitato dai papi e dai re neanche per una notte). Una presidente, però, l’Italia non l’ha mai avuta. Dagli anni Ottanta in poi, alla vigilia di ogni elezione spunta immancabilmente il nome di una donna – da Tina Anselmi a Nilde Iotti, da Rosa Russo Jervolino a Emma Bonino – che però alla fine viene puntualmente bocciato. L’ultima volta, poi, sono volati anche gli insulti.
Siamo nell’aprile 2013 e Pierluigi Bersani mette nella rosa dei suoi candidati la più longeva senatrice del Pd, Anna Finocchiaro, una donna che siede in Parlamento dal tempo di Reagan contro Gorbaciov. Anche sette anni prima era circolato il suo nome, ma poi la scelta era caduta su Napolitano, e lei non aveva nascosto la sua amarezza, sibilando: «Un uomo con il mio curriculum l’avrebbero già fatto Presidente della Repubblica da tempo». In questi sette anni lei ha saputo tessere le relazioni giuste. Quando si alza il sipario sul nuovo Parlamento, Pier Ferdinando Casini le fa il baciamano in aula, Renato Schifani ne tesse le lodi, il leghista Roberto Calderoli la candida alla presidenza di Palazzo Madama. E il giorno che quella poltrona viene assegnata a Grasso, lei incassa a denti stretti: «Non sarei sincera se dicessi che quell’incarico non mi sarebbe piaciuto...». Quando si aprono i giochi per il Quirinale, Bersani la rimette in pista: lei è l’unica donna nella “rosa” dei papabili. I giornali la mettono nel toto-presidente, e tra i favoriti. Eppure, prima ancora che le urne di vimini vengano portate a Montecitorio arriva da Firenze la stroncatura di Matteo Renzi: «Finocchiaro la ricordiamo per la splendida spesa all’Ikea con la scorta-carrello umano...». Lei naturalmente non la prende bene, e definisce quello del futuro premier «un attacco davvero miserabile». Poi, furibonda, scaglia la sua profezia contro il sindaco, appena sconfitto da Bersani alle primarie per Palazzo Chigi: «Chi si comporta in questo modo non ha le qualità umane indispensabili per essere un vero dirigente politico e un uomo di Stato». Quando legge queste parole, il senatore pd Corradino Mineo commenta alla radio: «E con questa risposta si è giocata la presidenza della Repubblica».
Non è stato il primo, Bersani, ad avere l’idea di mandare una signora sul Colle. Nell’estate del 1946 bisogna eleggere il capo provvisorio dello Stato. E il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini candida proprio una donna: Ottavia Penna, baronessina Buscemi di Caltagirone. «Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre»: così la presenta Giannini ai grandi elettori, aggiungendo: «L’abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito». Così, la mattina del 28 giugno, quando comincia la votazione, la baronessina Buscemi – siciliana, monarchica e anticomunista, una delle 21 donne elette alla Costituente, contro 556 uomini – è al centro dell’attenzione. Il cronista parlamentare del “Giornale di Sicilia” annota: «Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell’aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s’inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza». Al momento dello spoglio, la baronessina Buscemi ottiene però solo 32 voti, contro i 396 di Enrico De Nicola.
La Liberia – persino la Liberia – ha eletto una donna, Ellen Johnson Sirleaf, capo dello Stato. Come il Cile, che ha consegnato alla socialista Michelle Bachelet le chiavi del palazzo presidenziale. O come il Brasile, l’Argentina, la Finlandia, la Nigeria, il Botswana. In Italia questa ipotesi è sempre stata così lontana dagli orizzonti del Transatlantico che nel 1999, quando Giuliano Amato lanciò l’idea, gli risposero che era «una bella provocazione». «Oh, io ho detto una donna, non un coleottero!» protestò lui.
Le candidature, quelle ci sono sempre state, ma nessuno le ha mai preso sul serio. Dopo la mossa di Guglielmo Giannini, passarono 18 anni, prima che il nome di un’altra donna spuntasse dal grande cesto di vimini che raccoglie i voti per il presidente. Era il 1964 (la volta di Saragat) e fu la democristiana Elisabetta Conci, una dei fondatori del Partito popolare, a ricevere un voto. Uno solo, come uno solo ne ebbe l’attrice Emma Gramatica, al diciannovesimo scrutinio. Punto. Si capisce che sembrò un fatto strano, sette anni più tardi, la lettura al primo scrutinio di una scheda per la deputata genovese Ines Boffardi. Pertini, che presiedeva la seduta, udì le battute impertinenti di un paio di parlamentari e interruppe lo scrutinio per ricordare a tutti la parità dei diritti tra uomini e donne. «C’è poco da ridere, onorevoli colleghi. Anche una donna può diventare presidente, sapete?».
Poi ci sono state le candidature di testimonianza (Camilla Cederna nel 1978: 4 voti), quelle di solidarietà (Eleonora Moro, lo stesso anno: 3 voti), quelle di bandiera (Franca Rame nel 2006: 24 voti) e quelle di perfidia (Aureliana Alberici, moglie di Occhetto, nel 1992: 2 voti; Linda Giuva, moglie di D’Alema, nel 2006: 3 voti).
Le donne che sono state davvero in campo, sia pure per lo spazio di un mattino, sono solo quattro. La prima è stata la democristiana Tina Anselmi, l’ex staffetta partigiana che nel 1976 aveva rotto il monopolio maschile dei ministeri. Il prestigio meritato alla guida della commissione d’inchiesta sulla P2 l’aveva portata sul trampolino di lancio per la successione a Pertini, ma De Mita raggiunse l’intesa su Cossiga e dalle urne per la Anselmi uscirono solo tre schede (che sette anni dopo salirono a 19). La seconda è stata la radicale Emma Bonino, che nel 1999 riuscì a mobilitare intorno alla sua candidatura un ampio movimento d’opinione, che tuttavia si infranse contro il portone di Montecitorio: 15 voti. La terza, sempre nel 1999, è stata Rosa Russo Jervolino, prima donna alla guida del Viminale: era nella terna del suo partito (il Ppi) che però svanì con l’entrata in gioco di Ciampi, eletto al primo scrutinio. Eppure, in quell’unica votazione si contarono comunque 16 voti per lei.
Infine la quarta, Nilde Iotti: nessuna è arrivata più in alto di lei. In Parlamento dalla Costituente, è stata la prima donna a essere eletta a una delle massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera, conquistandosi con la sua indipendenza dal partito un’autorevolezza e un rispetto che attraversavano trasversalmente tutto l’emiciclo. Nel 1992 raccolse prima 183, poi 245 e infine 256 voti, preferenze che lei ascoltava dal suo banco con l’elegante distacco di chi non si fa illusioni. Sapeva che non sarebbe toccato a lei (e infatti venne eletto ancora una volta un uomo: Scalfaro).
La prossima volta forse toccherà a una donna, azzardarono allora i giornali. Si sbagliavano. Gli italiani, che hanno aspettato 115 anni e 836 ministri maschi prima di vedere al governo una donna, sanno che la loro classe politica non ha ancora smentito, nei fatti, quello che Samuel Johnson scriveva due secoli fa: «La natura ha dato alla donna un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco».