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 2015  gennaio 06 Martedì calendario

Investire sui giovani. Tra jobs act, fertilità e fuga dei cervelli

Tutte le proiezioni demografiche sono abbastanza concordi nel segnalare che il progressivo invecchiamento della popolazione italiana è destinato a proseguire nei prossimi decenni. La sua intensità potrà variare a seconda che vi sia o meno una ripresa della fecondità e se le immigrazioni (che riguardano per lo più persone giovani) si manterranno sul livello attuale, diminuiranno o invece aumenteranno di intensità. Ma è indubbio che saranno i – pochi – bambini di oggi a determinare quanti saranno i giovani fra venti-trentanni. Anche se la loro fecondità sarà più alta di quella dei loro genitori, è altamente irrealistico pensare che compenserà la loro minore numerosità. Tanto più che, secondo gli ultimi dati, sono al momento avviati ad essere sempre meno.
Già oggi, infatti, le donne italiane in età feconda sono meno numerose delle loro madri. Inoltre, con la crisi si è fermata e poi invertita, coinvolgendo anche le donne immigrate, la piccola tendenza all’aumento della fecondità che era emersa timidamente nei primi anni duemila. Accanto, quindi, a politiche che sostengano chi desidera avere figli, occorre che l’Italia si attrezzi per un futuro prossimo in cui per diversi anni i giovani saranno un bene scarso, perciò tanto più prezioso, da non sprecare e su cui investire. Purtroppo, tuttavia, non si vedono segnali in questa direzione. Nonostante la retorica giovanilistica un po’ ossessiva, manca un effettivo investimento sia sui giovani che ci sono sia su quelli che lo diventeranno nei prossimi anni, i bambini di oggi.
Al punto che siamo al paradosso di avere una percentuale di laureati tra le più basse in Europa, ma li scoraggiamo da persuadendo un buon numero ad emigrare, senza essere in grado di compensarne l’uscita con un’immigrazione qualificata. E continuiamo a sprecare gran parte del potenziale femminile, nonostante le giovani donne siano altrettanto, e talvolta più istruite e formate dei loro coetanei maschi. La responsabilità non è solo della politica, ma anche, se non soprattutto, del mondo imprenditoriale. La scarsa competitività italiana, che rende così difficile l’uscita dalla crisi, è figlia di politiche imprenditoriali da troppo tempo squilibrate sull’inseguimento di un basso costo del lavoro e sulla flessibilità in uscita, a sfavore di investimenti in ricerca, innovazione, quindi in capitale umano, perciò miopi. Lo scontro avvenuto sul jobs act ha totalmente ignorato – da una parte e dall’altra – questo fatto cruciale, mettendo ancora una volta l’accento sulla gestione contrattuale dell’offerta di lavoro, non sulla qualità della domanda e delle politiche imprenditoriali. Anche le politiche di conciliazione famiglia-lavoro sono al palo, apparentemente considerate un lusso sia dalla politica sia dall’imprenditoria, sia dagli stessi sindacati, con una mancanza di fantasia organizzativa disperante.
Non va meglio, al contrario, sul versante dell’investimento sui bambini, a partire da quelli più svantaggiati. Non mancano solo iniziative sistematiche di contrasto ad una povertà minorile tra le più alte nel mondo sviluppato. In un paese che ha una importante tradizione nei servizi educativi per la prima infanzia ed anche nella scuola elementare, il tema dell’importanza dell’educazione precoce per ridurre le disuguaglianze di origine sociale e consentire appieno lo sviluppo delle capacità di ciascun bambino non riesce ad entrare nell’agenda politica, neppure in quella del ministero dell’istruzione. Nel caso dei bambini, in Italia non c’è né pre-distribuzione né redistribuzione. Non saranno 80 euro mensili per tre anni ai bambini nati in famiglie economicamente molto modeste a cambiare questa situazione.